Olimpicus - L'Uomo che mi volle

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Fortunato Ballerini
Un logo della Podistica Lazio nei primi anni di vita

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L'UOMO CHE MI VOLLE

C'era il vento e c'era un po' di sole, ingarellato con branchi di nuvole scure, poi sarebbe arrivata anche la pioggia, quel mattino del 20 ottobre 1902. Già autunno inoltrato, con le giornate sempre più corte e le lampade giallognole che si accendevano sulle porte delle friggitorie, nella vecchia Roma dei vicoli, del papa e del re piccoletto. Vedevo i ragazzi della "Podistica", giù a Ripetta, farsi scorpacciate di tocchi di polenta fritta in padella col baccalà, di pizza-e-burro e di vermuth-e-paste, ma tutti rimanevano belli asciutti perché non stavano fermi un attimo; a parte Odoacre detto "Onta", il giocatore accanito di tressette nella sede in Via Valadier 21. Le giunture ce l'avevano elastiche, vuoi per la gioventù e vuoi per le corse e le lotte ginniche giornaliere. Uno in particolare, Angelo, se le lubrificava con un buzzichino d'olio d'oliva, accoccolato per terra come il pastore d'un presepe, molto serio e concentrato: una goccia qui e una là, sfregava lievemente con le dita il ginocchio e la caviglia, il suo rito portafortuna prima della gara. Angelo, Romano, Gigi, Carlo, Tito, Sante, Guido, Arturo, insieme a qualcun altro formavano un manipolo di bravi corridori e marciatori, capaci di partire alla ventura col tempo peggiore, timorosi di nulla, fasciati della maglia bianca di lana e la scritta sociale ricamata grossa sopra. Che tutti la ammirassero: loro erano della "Lazio". Io no, non ancora. Ero "Audax". Ero tante altre cose, certo, ma per gli sportivi romani ero l'aquila dell'Audax.

C'era in programma, quel giorno, una prova ufficiale dell'Audax Podistico Italiano, una prova extra chiamata l'Audacissima dei 100 chilometri. Ne scorgevo più di cento di "marciatori", nel gruppo che s'agitava nella piazza ansioso d'imboccare la via Casilina e uscire a passo spinta dalle mura cittadine. In mezzo si riconoscevano parecchi campioni della Podistica. Gli aspiranti audacissimi iscritti si contavano in settantasei. Gli altri appartenevano al variegato lotto dei "soigneurs" - come si diceva -, vale a dire semplici curiosi, tipi che si divertivano a fare ala ai concorrenti veri, nella prima mezzora o per un'ora al massimo. Poi abbandonavano la scena e tornavano a casa felici come pasque perché avevano qualcosa da raccontare. Non c'erano la televisione e la radio: sui giornali avrebbero letto la cronachetta e saputo chi ce l'aveva fatta a conquistare il traguardo. Non so perché, ma quando ripenso alla partenza dell'Audacissima del '902, per me è come guardare una schneekugel viennese. La memoria sfiora la pallina di vetro con la neve dentro, che si ribalta e comincia a fioccare, candida, oleosa e luminosa, assieme a tutti quei ragazzi belle époque: non è così ogni volta che pensiamo alle cose migliori che ci sono capitate nel corso della vita? L'uomo che coltiva il suo giardino, come chiedeva Voltaire, è l'uomo che preferisco. Com'era prevedibile, dopo una trentina di miglia la centuria di giardinieri si ridusse alla metà.

Degli accompagnatori solo due sopravvivevano alla marcia celere al ritmo di otto chilometri all'ora: un vecchio e un giovane vestiti di tutto punto, giacca, camicia di flanella aperta sul collo, pantaloni di tessuto e scarpe in pelle con la suola alta e sagomata, da montanaro. Il più anziano aveva di sicuro passato da un pezzo la quarantina e portava una borraccia militare a tracolla sulla spalla destra. Entrambi si difendevano dal vento grazie a cappelli a tesa larga, quasi da buttero. Quel mattino c'erano solo due botticelle in un angolo, con due ronzini che non mostravano alcun interesse all'esagitazione sportiva tutt'attorno. Idem i padroni bottari. Sotto le voci dei marciatori in fase di preparazione e degli astanti e familiari regnava il silenzio. Macchine ancora non ne circolavano. Vero è che avevo visto la prima automobile, dall'altra parte nella zona a nord, giusto sette anni prima. Una "Benz" che stupì parecchio i quiriti, con la gente che s’accalcò attorno al meraviglioso prodigio parcheggiato alla Rotonda e fece uscire il guidatore, un milanese di nome Brena, con una mezzora di ritardo sul previsto. Il tragitto era stato: Pantheon, piazza Colonna, Montecitorio, piazza del Popolo, via del Babuino e via Due Macelli. Dopo una spettacolare frenata, la Benz aveva salito disinvolta lungo il Tritone, raggiunto piazza Barberini, operato un carosello a Termini, disceso per via Nazionale, manovrato a piazza Venezia ed era trionfalmente rientrata al Pantheon per corso Vittorio e via dei Cestari. L'indomani all'alba, la prima automobile mai vista nell'Eterna era ripartita in direzione di Napoli. Manco a dirlo, non era trascorso molto tempo che sia don Prospero Colonna, il sindaco cavallerizzo, e ovviamente il conte Tacchia avevano mostrato al volgo la loro brava vettura a motore.

"Gli automobili" li chiamava Gabriele D'Annunzio, reporter e attore occasionale di vicende equino-mondane ma che quel giorno, nel freddo di Porta Maggiore alle sette del mattino, non stava certo lì a interessarsi di "puzzapiedi". Come ho detto, i due con l'aria meno puzzapiedistica di tutti dettavano il ritmo, e dopo un po' si udì la voce baritonale del "mejo fico" degli allenati, l'audaciano e lazialissimo Romano, figlio d'un medico d'un paesotto dell'Agro Pontino, esprimersi chiaramente all'amico Angelo:

- Angelì, 'Sti due buggeri, 'co 'sto trotterello malefico, me stanno a imbroglià er passo. Se stuferanno? Mo' aumento l'andatura e glie faccio vede...

- Fa' pure. Tranquillo. Io ti seguo. Intanto informo gli altri della cosa.

Dovete sapere che Romano, meglio conosciuto come "sor Lallo", era uno che ti poteva bruciare trenta chilometri marciando in tre ore; nel 1905 sarebbe diventato campione italiano. Fischiettando un'arietta rossiniana, allegra ma con qualche imprecazione burina sibilata tra i denti (Figaro qua, Figaro là... limortacci loro!), cominciò a tirare come una locomotiva tedesca a vapore a due cilindri gemelli. E ziffe e zaffe, finché il gruppo non arrivò in vista di Montecompatri, luogo fissato per la prima sosta. L'ingresso del plotone multicolore dalla Porta cittadina alla volta di Palazzo Borghese, sede del Municipio, avvenne alla mezza circa. Esattamente dopo cinque ore di marcia e alla media di kmh 8,4. Ma i due buggeri erano transitati per primi!

Epperò, risultava difficile considerarli ancora elementi estranei alla Legio. Tenendo il passo, sempre dieci metri davanti alla Legio, s'erano guadagnati il rispetto del centurione capo, er sor Lallo, e degli altri militi marciatori. In una fraschetta ricavata in una cantina di tufo, al cospetto di abbondanti porzioni di porchetta guarnite di verdure a cazzimperio e salutate da fojette di bianco dei Castelli, l'incontro partì sospettoso e si chiuse con un brindisi pacificatore. Tutti d'accordo nell'incorporare ufficialmente alla squadra i travestiti da passeggiatori archeologici della domenica. Si seppe, finalmente, chi erano i misteriosi: il signore con l'aria distinta rispondeva al cavalier Fortunato Ballerini, funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia, già presidente della Società Ginnastica Roma; l'altro fighetto era suo nipote Ciro. Ballerini aveva superato la boa dei cinquant'anni quattro giorni prima, disse che era partito con l'idea di festeggiare con una gita privata di salute, e che nel marzo di quello stesso anno, sempre insieme all'educatissimo nipote, s'era guadagnato il distintivo Audax percorrendo i 75 km nel tempo limite stabilito. Bello è che rientrò nel novero dei ventisei che portarono a compimento i 108 km (sbaglio di calcoli...) del giro dei Castelli Romani dell'Audacissima del Novecentodue. Per cui tre soci della "Lazio" al traguardo gli si avvicinarono speranzosi e, molto rispettosamente, gli chiesero se voleva accettare la presidenza della loro società.

Il cavaliere altrettanto rispettosamente declinò la possibilità, perché era segretario in carica della Federazione Ginnastica, doveva assistere il babbo Ferdinando che stava maluccio assai e gli mancava il tempo per occuparsi d'altro. Ma due anni dopo, dimessosi dalla segreteria della FGI per un dissidio inerente la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 1908, avrebbe accettato con piacere di diventare presidente della giovane "Podistica". Il primo presidente della Società Sportiva Lazio. Questa la storia in sintesi. Magica e provvidenziale, come tante altre vicende che ci riguardano. Quasi incredibile nel succedersi delle coincidenze. Come se uno spirito o una forza superiore vegli sulle fortune della Famiglia/Patria che siamo. L'ho sentita ricordare, questa cosa della Provvidenza biancoceleste, dal vecchio amico Mario poco tempo fa, e io sono d'accordo con lui. Lui che ha messo su carta i ricordi dei pionieri. E, a proposito, vi devo a questo punto dare ragione del titolo che campeggia su in alto: l'Uomo che mi volle fu, infatti, il cavalier Fortunato Ballerini medesimo. Fiorentino di nascita, velocipedista alle Cascine e nuotatore nell'Arno da ragazzo, poi giocatore di tamburello, eccellente nel tiro a segno, camminatore infaticabile fino a tarda età, Ballerini incarnò in pieno l'ideale olimpico che sottende al sodalizio sportivo più glorioso di Roma. Allorché fondò l'Audax Ciclistico Italiano, organismo precursore dell'Audax Podistico, fu lui a scegliermi come emblema: un'aquila ad ali spiegate che sormontava una ruota. Poco dopo aver accettato la presidenza della Lazio istituì la Sezione Escursionistica, e fu così che arrivai io, la creatura prediletta del sole.

Da allora sono "laziale". Fiera di esserlo.

La vostra amica per sempre.



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