Marrajeni Francesco

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Francesco Marrajeni
Francesco Marrajeni nella strenna dei romanisti del 1946
Francesco Marrajeni, primo a sinistra seduto, al Liceo Visconti nel 1908 nella fotografia dei maturandi
Una cartolina spedita durante la Grande Guerra da Francesco Marrajeni
1944 Gazzetta Ufficiale Repubblica Sociale.
Uno dei due libretti scritti da Francesco Marrajeni per l'Esercito Reale nel 1934
Uno dei due libretti scritti da Francesco Marrajeni per l'Esercito Reale nel 1934
Atto di matrimonio

Difensore. Conosciuto anche come Marraieni o Marrajenni. Nato a Napoli nel 1889, da Pasquale. Morto a Roma il 7 marzo 1979. Uno dei componenti della famosa formazione che nel 1908, in Toscana, fu costretta dagli organizzatori a sostenere tre partite in un giorno contro altrettante squadre toscane di Livorno e Lucca, nell'ambito della finale del primo campionato interregionale, vincendole tutte e segnando 8 reti senza subirne alcuna. Dal dicembre del 1907 nella Lazio ricopre anche ruoli dirigenziali e in particolare è nominato segretario della Sezione sportiva nell'Assemblea generale ordinaria del 30 dicembre 1907. Militare di carriera, diventerà generale di artiglieria. Nel 1912 è decorato con una medaglia di bronzo per un'azione ardimentosa a Sidi Bilal in Libia. Di lui si ha notizia come membro del Ministero della difesa Nazionale della Repubblica di Salò, come Direttore Generale dei servizi logistici, con sede ad Asolo in provincia di Treviso, con il grado di Generale di brigata. Il suo faldone con stato di Servizio ed altra documentazione è andato perduto per cause misteriose riconducibili alla guerra Negli anni trenta scrisse anche 2 manuali sulla tecnica militare dai titoli: Lombardi H.-Marrajeni F. - "Tiro di artiglieria. I - Nozioni e mezzi tecnici", in "Manualetti di Tecnica Militare", fascicolo XXVI, Ed. Rivista Esercito e Nazione, Roma, 1934. Lombardi H.-Marrajeni F. - "Tiro di artiglieria. II - La preparazione", in "Manualetti di Tecnica Militare", fascicolo XXVII, Ed. Rivista Esercito e Nazione, Roma, 1934. È sepolto al cimitero Flaminio.


La Famiglia Marrajeni

Il brigantaggio a Rocca di Neto come in tutto il meridione fu un movimento che molte volte assunse un valore politico ma sempre manovrato dall'alto ossia dai Borboni che dalla Chiesa. Nelle loro fila si trovavano personaggi di tutte le specie dai ladri e assassini ai rivoluzionari purtroppo i capi erano spesso dei vari malviventi. I briganti erano dei latitanti che sfuggivano la giustizia e si nascondevano nei boschi, appunto per questo nelle loro fila c'erano perseguitati politici, assassini, ladri ecc. Vivevano rubando spesso ai ricchi, visto che la povertà era tanta e la maggior parte dei contadini non possedeva nulla. I nostri Robin Hood non ebbero la stessa fortuna dei loro amici i inglesi anche se spesso si comportarono allo stesso modo, ma guardando dall'alto della storia possiamo dire che furono manovrati all'occorrenza e si comportarono più da mercenari che da rivoluzionari. La prima volta vennero usati dai Borboni nel 1799 per combattere i repubblichini che si erano formati in Calabria e che avevano issato nelle loro città l'albero della libertà (anche Rocca di Neto). Il cardinale Ruffo partito dalla Sicilia con pochissimi uomini trovò nelle bande dei briganti il suo esercito col quale rovesciò la situazione. Durante l'occupazione Francese i briganti sostennero la lotta per ripristinare il re. Garibaldi che era partito con mille uomini li usò per combattere il regno di Francesco Il e quindi parteciparono assieme alla popolazione, all'Unità d'Italia, uniti dal motto "la terra ai contadini", promessa mai mantenuta. In fine delusi dell'Unità d'Italia e delle promesse non mantenute cercarono di riportare senza successo Francesco lI al trono. Questi nemici dei Savoia vennero debellati definitivamente intorno al 1875.

I Briganti di Rosanite

Verso il 1847, anche Rocca Ferdinandea ebbe nelle sue campagne la molestissima piaga del brigantaggio. Il covo di questi briganti era nei boschi di Rosaniti; era una compagnia di 26 delinquenti, e il loro capo si chiamava Nicola Renda di Serra Spesso si spingevano a fare qualche scorreria notturna in paese, e tornavano allo stesso posto con ricchi bottini. Questo stato di cose toglieva la tranquillità e la pace al paese. I Gendarmi in una imboscata li catturarono tutti e ne giustiziarono cinque sul posto, tagliandone le teste, che portarono in paese e le appesero, in una gabbia di ferro, alle mura del vecchio Monastero dei Certosini, di Santo Stefano del Bosco, sul "Casino" oggi via Rialto. Il loro capo, invece, Nicola Rende fu portato a Crotone, e fu giustiziato col resto della banda. Rocca Ferdinandea non poté sfuggire ai successivi assalti di altre bande di briganti, che miravano ai beni della famiglia Marrajeni e che rapirono per ben tre volte alcuni componenti di questa famiglia i quali alla fine di queste tristi vicende, vendettero i loro averi e si stabilirono altrove.

IL BRIGANTAGGIO E LA FAMIGLIA MARRAJENI

Il ricordo delle famigerate gesta dei briganti a Rocca di Neto si associa alle sorti tristissimi della famiglia Marrajeni, che subì le persecuzioni di svariate bande di briganti, con conseguenze tragiche. La persecuzione dei briganti verso questa famiglia avvenne perché si diceva in giro che possedevano qualcosa di molto prezioso che era chiamata la "gioia". Su questa gioia ci sono tante versioni ma nessuna certezza: alcuni dicevano che era una pietra preziosa di oltre 1000 carati, altri dicevano che era ordigno miracoloso, che faceva una piastra d'oro al giorno! Il capostipite fu Nicola Marrajeni, quale, sposato a Caterina Pizzi, ebbe due figli: Andrea e Tommaso che fu Arciprete al Rocca di Neto dal 1796 al 1839. Andrea Marrajeni, fratello, che fu Arciprete, aveva sposato la gentildonna D. Francesca Borrelli, dalla quale ebbe due figli: Raffaele e Pasquale. Ad Andrea Marrajeni furono estorti dai briganti molti soldi, ma l'episodio più grave fu quello dell'uccisione del figlio Raffaele.

Raffaele Marrajeni

Il ricordo delle famigerate gesta dei briganti a Rocca di Neto si associa in ogni tempo alle sorti tristissimi della famiglia Marrajeni, che ebbe a soffrire le persistenti persecuzioni dei brigantaggio conte un destino di morte. Andrea Marrajeni fratello dell'Arciprete Tommaso aveva due figli: Raffaele e Pasquale. Il figlio Raffaele si era laureato in medicina all'Università di Napoli all'età di venti anni e si accingeva a tornare in paese, ove la famiglia aveva organizzato un festoso ricevimento. Stava per giungere a Rocca di Neto, quando fu catturato dai briganti e trattenuto fino a quando la famiglia avesse mandato, ingente somma di riscatto che quei manigoldi avevano chiesto. Il padre si affrettò a mandare la somma, affidandola a persone di fiducia del suo servizio. Ma questi tradirono il padrone, non si presentarono ai briganti, e si appropriarono della somma che divisero segretamente fra di loro facendo intendere che i briganti avevano preso il danaro, senza dar conto del giovane Raffaele. I briganti, invece, vedendo che i giorni passavano, senza veder nessuno che avesse portato la somma chiesta, il giorno 3 novembre del 1818 uccisero il povero giovane medico Raffaele Marrajeni, lo tagliarono a pezzi, che raccolsero in un sacco, e lo abbandonarono in campagna. Il sacco fu trovato e le ossa di questo disgraziato giovane, considerate come quelle d'un martire, furono custodite in un'urna a vetri su di uno degli altari della Chiesa Madre. Questo terribile assassino terrorizzò e commosse tutti e ovunque si seppe destò le più aspre indignazioni contro l'infame piaga del brigantaggio.

Andrea Marrajeni

Dopo qualche anno, fu catturato anche dai briganti il padre dell'infelice Raffaele Marrajeni, Andrea, e fu condotto in una capanna, lontana dal paese, per esservi trattenuto fino al pagamento del riscatto. Uno dei briganti ebbe l'incarico di sorvegliarlo durante il tempo che la compagnia si fosse assentata per eventuali scorrerie. Un giorno questo brigante si lasciò vincere dal sonno e si addormentò profondamente, allora Andrea Marrajeni concepì il disegno di darsi alla fuga e per assicurarsi di non essere inseguito, gli tolse destramente il pugnale dalla cintola e gli vibrò un colpo al cuore. ... Ma ... il brigante non si fece nulla perché il pugnale colpì il medaglione che il bandito indossava. Il brigante catturato il Marrajeni, per punirlo, pensò di farlo morire in un modo orribile. Distese in mezzo alla capanna l'infelice Marrajeni e gli legò fortemente con una fune le mani e i piedi, uscì fuori per dar fioco alla capanna e lasciarvi carbonizzare la vittima. Il povero Marrajeni raccomandò la sua anima a Santa Filomena, di cui aveva una particolare devozione, e promise di costruirle una chiesa, se avesse operato il miracolo di liberarlo da quella morte orribile. In quell'istante, come per miracolo mentre il brigante si accingeva dar fuoco alla capanna, sopraggiunsero i compagni col loro capo, i quali, nel sentire come si era svolto l'incidente, giudicarono colpevole il compagno, condannandolo a morte per non aver saputo mantenere la consegna e liberarono il Marrajeni. Ricostruito il nuovo paese, dopo il terremoto del 1832, Andrea Marrajeni rispettò la promessa fatta e cominciò a costruire la chiesa di Santa Filomena ma morì prima e l'opera la portò a termine il figlio Pasquale.

Diodato Marrajeni

L'ultima persecuzione sofferta da questa famiglia fu quella subita da Diodato Marrajeni. Pasquale Marrajeni ebbe due figli: Antonio medico chirurgo e Diodato, avvocato. Quest'ultimo, che seguiva la magistratura, resse le preture di Strongoli, Cariati e Campana. Mentre si recava a Strongoli, il 3 maggio 1866, fu catturato dalla compagnia dei briganti di Domenico Straface, detto Palma. I briganti mandavano i messaggi di riscatto alla moglie, D. Angelina Ferrari, rimasta sola con tre figlioli in Rocca di Neto. Questa povera Signora mandava continuamente ai briganti ogni ben di Dio: pane, provviste di salami, latticini, biancheria, indumenti nuovi con bottoni d'argento per tutti della compagnia, e financo gioielli per la mantenuta di Palma. Era una compagnia insaziabile, una voragine che non si arrivava a colmare; e, malgrado questo continuo dissanguamento, Marrajeni non veniva messo mai in libertà, anzi, era continuamente minacciato di morte, perché volevano "la gioia". Con le persecuzioni di quest'ultimo periodo, la famiglia Marrajeni ebbe rovesci finanziari gravissimi, fino a ridursi quasi in povertà. Un giorno i briganti di Palma fecero sapere alla Signora Marrajeni che, qualora non avesse mandato loro la gioia, essa avrebbe ricevuto la testa del povero marito, di cui le anticipavano un orecchio. Infatti, al povero Diodato fu tagliato un pezzo del padiglione d'un orecchio e mandato alla moglie. Lo spavento del Marrajeni e della povera Signora fu enorme; ma pare che anche questa volta, la protettrice di famiglia, la Santa Filomena, avesse protetto il povero Don Diodato. Egli aveva fiducia immensa in Palma, che, malgrado il capo di quella masnada, aveva un po' di sentimento più umano degli altri, tanto che era entrato in cordialissima e sincera intimità col Marrajeni. Finalmente, nel luglio dello stesso anno, dopo tre mesi di ansie, di spavento, di sofferenze e di gravissimi dissesti economici, Diodato Marrajeni fu messo in libertà. Con la sua liberazione ebbe fine la tragica sequela delle persecuzioni dei briganti, durata, come si è detto, per circa mazzo secolo. Ma il povero Avvocato Diodato Marrajeni ebbe giorni contati; lo spavento continuo di tre mesi di cattura gli aggravò la malattia di cuore e tornato a Rocca di Neto, passò in famiglia qualche altro anno, e morì nella propria casa, il 13 febbraio 1871, a 45 anni.