Articoli della Stampa del 15 Maggio 2000

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Dall'Archivio della Stampa del 15 maggio 2000[modifica | modifica sorgente]

Romanzesco epilogo del campionato: la squadra di Eriksson brucia i bianconeri sul filo di lana Incredibile Collina: 71' d'attesa sotto il diluvio (di Marco Ansaldo)[modifica | modifica sorgente]

Dall'ultima giornata non e' uscito lo spareggio, che persino Giraudo aveva, più o meno seriamente, invocato come la soluzione catartica del campionato. Si sono sovvertiti i ruoli. La Juve che non sbaglia mai il rush finale ha perso a Perugia il ventiseiesimo scudetto, come accadde per il diciassettesimo, ventiquattro anni fa (ma allora il Toro si era presentato in vantaggio all'atto conclusivo). E la LAZIO ha ottenuto in una partita zuccherina e liscia come un allenamento il secondo titolo della sua storia. A Perugia e' stata partita vera, all'Olimpico chissà. Se fosse stata la Juve a vincere a mani basse, con due rigori (seppure indiscutibili) si moltiplicherebbero le processioni e i processi. Lo ha fatto la LAZIO ed e' tutto normale. L'aria di questa stagione odora di sospetti, veleni e rivolte di piazza. Il simbolo sono le scuse che Nizzola ha rivolto in settimana alla LAZIO: non era mai accaduto che un presidente federale si cospargesse il capo di cenere per un arbitro. Se la credibilità della Federcalcio deve passare da queste forche caudine e' il caso che in via Allegri si chiuda bottega. La Juve ha perso uno scudetto che non poteva sfuggirle. A otto giornate dalla fine aveva nove punti di vantaggio, a quattro ne conservava ancora cinque. L'hanno punita le sconfitte contro due provinciali (Verona e Perugia) che non avevano più niente da chiedere, la LAZIO invece ha sempre vinto. Forse ha pesato davvero la differenza di preparazione e di organico: l'ultima Juve era bollita dalla lunghissima attività (ma il Perugia comincio' la stagione addirittura il 20 giugno e ieri sembrava più tonico degli juventini) e da un turnover spinto al minimo per l'inadeguatezza di alcuni ricambi. Ancelotti (che ha dato il massimo con quanto aveva) ha infine sbagliato alcune scelte. Ha insistito sull'inutile Inzaghi, a secco dal 12 marzo, oppure su Conte sempre tenuto sulla fascia dove incide di meno. L'appannamento di Zidane non ha aiutato il tecnico, alla Juve e' mancato l'unico uomo che le aveva dato l'imprevedibilità e l'alternativa ad azioni sempre uguali, il lancio lungo, la ricerca esasperata dello scatto di Inzaghi sul filo del fuorigioco. La Signora si e' afflosciata nel gioco e nelle forze. Così ha permesso il recupero alla LAZIO di un signor perdente come Eriksson. Ma l'atto finale, la sconfitta di Perugia, porta ad altre considerazioni e alla comprensibile rabbia di chi vede trionfare chi ha urlato di più. Pensiamo che il match di Perugia sia stato «strano». Non usiamo parole forti (scandalo, vergogna) che si userebbero in altre piazze, perché gli scandali e le vergogne in questo Paese sono altri. Tuttavia Perugia-Juventus e' stata una partita proseguita da Collina con una decisione politica più che tecnica, per il rispetto della quiete sociale più che del gioco. Non era facile vestire i panni dell'arbitro viareggino. Tra l'altro, ha pure diretto bene quando si e' trattato di far calcio. Pero', Collina ha concesso 71 minuti di sospensione a un match così delicato e di trama tanto intensa che nessuno l'avrebbe ripreso con la dovuta pressione. Tanto meno la Juve, come ha ammesso Mazzone. Quegli uomini che si giocavano tutto, sapendo che a Roma la Reggina aveva già sbandato, sono stati sottoposti a un tira e molla letale: si gioca, non si gioca, la palla non rimbalza, no, ce la fa. Per quattro volte Collina si e' sottoposto al rito del controllo, con l'ombrello o senza. Gli juventini hanno capito che l'ordine era chiaro: andare in fondo, nonostante le pozzanghere frenassero la palla e l'interruzione avesse raffreddato i muscoli. Tutto perché non si poteva concedere alla Juve altri 90' per cercare il gol. Qualcuno avrebbe accusato Moggi di aver comprato la pioggia. Manifestando tra piazze e tv.


All'Olimpico un pomeriggio surreale: Reggina battuta, poi 60 mila in attesa del ko della Juve Lazio, lo scudetto piu' lungo Cragnotti: nel calcio esistono i miracoli (di: Guglielmo Buccheri Piero Serantoni)[modifica | modifica sorgente]

E adesso alla LAZIO niente sara' piu' come prima. Ne' Eriksson, il non vincente di successo; ne' una città vittima di un passato e un presente, fino alle alle 17,58 di ieri che veniva raccontato e vissuto soltanto per le grandi occasioni perse. Roma, la Capitale biancoceleste fa festa nel pomeriggio piu' strano che il calcio ricordi. La LAZIO la sua pratica l'ha già risolta, dopo aver aspettato invano per dieci minuti prima di cominciare la ripresa. A Perugia piove. Poi, migliaia tifosi invadono il campo, ma manca ancora qualcosa alla fine: tutti di nuovo sugli spalti e si giocano gli ultimi secondi di un incontro senza storia. Squadra nello spogliatoio, il pubblico sulle tribune, oltre sessantamila persone festanti, in attesa del collegamento via tabellone dal «Renato Curi». Niente, la diretta salta: tocca alla radio raccontare la palude di Perugia. Fila dieci della Tribuna d'Onore. Cragnotti rimane seduto. Segna Calori, viene espulso Zambrotta. La Juve perde, e' fatta. Diventa tutto giusto. La curva, deserta per protesta, che si riempie al 15' del primo tempo, quando il corteo funebre con lo slogan «la credibilità del calcio italiano non esiste più», fa il suo arrivo allo stadio; l'ultima di Mancini dopo 19 anni e 541 partite nella massima serie e' il momento del dolore nella gioia, con il «genio» portato sulle spalle da Lombardo, in passerella mentre gli altri ancora giocano; i fischi alla gigantografia di Moggi che appare improvvisamente sul tabellone; l'invasione dei tifosi con giocatori spogliati e nuovamente in campo senza numeri. Con il permesso di un arbitro che non vedeva l'ora di togliersi di mezzo. La possibilità di poter rovinare la festa era evidentemente l'incubo di Borriello e lo testimonia il secondo rigore concesso con grande generosità. «Adesso il modello siamo noi». E' nello stanzone dello spogliatoio, Cragnotti. Giacca e cravatta sono su una panca, addosso solo una t-shirt. «Nel calcio esistono i miracoli. Solo così, con un finale da film giallo, potevamo riportare lo scudetto nella Roma biancoceleste. Un sogno, una favola da vivere tutta d'un fiato: festeggiamo dopo aver superato una grande avversaria come la Juventus e questo non fa che aumentare i nostri meriti». Sorride il finanziere: «Ringrazio Umberto Agnelli per i complimenti: abbiamo superato una grande avversaria e questo rende più bello il nostro successo» . Poi abbraccia Eriksson. «Il nostro tecnico non ha mai mollato, trasmettendo la sua fiducia a tutto il gruppo. Adesso niente rivoluzioni, semplici ritocchi per una squadra che e' all'inizio di un ciclo vincente». Nonno solo tre giorni fa, presidente di una LAZIO campione d'Italia: «E' incredibile cosa mi sta succedendo. Voglio dedicare lo scudetto a mio fratello Giovanni, lui mi ha convinto a prendere la LAZIO e purtroppo e' morto senza poter vivere questi momenti». Scudetto laziale numero due, dopo 26 anni e nell'anno del Giubileo, ma quanto diverso. Dal piccolo costruttore papà Lenzini, che costruì il miracolo con Maestrelli e Chinaglia, ecco il trionfo della finanza, della Borsa miliardaria. Vince Cragnotti, che al suo debutto in biancazzurro, fu soprannominato Cragnotton de Cragnottonis, una presa in giro per acquisti costosi e sbagliati. Dopo 7 anni vive la grande rivincita, un trionfo degno di un imperatore romano lo ripaga di tante spese. Il presidente e' in tribuna d'onore, davanti, quasi in ginocchio decine di migliaia di tifosi lo osannano dal prato. Lui stringe Eriksson in un abbraccio che vale più di mille firme. In maniche di camicia canta «Chi non salta e' della Roma», urla sepolto da tifosi che chissà come hanno superato ogni sbarramento. Portato in trionfo ha un attimo di sbandamento, supera il malore ma preferisce tornare immediatamente a casa. Il popolo laziale resterà per due ore sul campo, nella vana attesa di una passerella della squadra, di un discorso del presidente. Motivi di ordine pubblico lo impediranno, prima c'e' sempre gente sul prato, poi si capisce che sarebbe pronta l'invasione numero due e nessuno potrebbe controllare gli entusiasti tifosi. Allora tutti a casa tra i fischi. Il bilancio e' triste per l'Olimpico: prato arato in più punti. I fans hanno portato via zolle di erba come ricordo. Porte danneggiate, reti sparite. Panchine a pezzi e tabelloni pubblicitari distrutti. E' il prezzo di uno scudetto indimenticabile.

La rivincita del «perdente» Eriksson: ho realizzato un sogno Mai pensato di essere licenziato[modifica | modifica sorgente]

A volte e' più facile scomporre un atomo che un pregiudizio. Ma da ieri, alle 17,58, Sven Goran Eriksson potrà sentirsi più libero. L'appellativo di perdente di successo non farà più parte della sua biografia. Ha vinto il tecnico svedese. E stavolta il successo e' di quelli con i botti: «E' la vittoria più importante della mia vita, perché quando si dice che arrivare primi nel campionato italiano e' un'altra cosa, si afferma il vero». E' quasi un'ammissione, la sua. Un prendere atto che vincere una Coppa Italia, una Supercoppa di Lega, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa europea, tanto per fargli i conti in tasca nel triennio alla LAZIO, non fossero ancora garanzie di rispetto, sportivo si intende. Cragnotti lo ha confermato a furor di popolo, l'ha comunicato ai tifosi, adesso lo adora. Ma quanto pesante era il fardello di un titolo perso con la Roma nell'86, proprio all'ultima fermata in casa contro un Lecce già retrocesso o l'aver dilapidato, al timone di quella che viene definita una corazzata, 7 punti di vantaggio nelle ultime 7 giornate soltanto dodici mesi fa. «Nello sport, come nella vita, non bisogna mai mollare e questo l'ho ripetuto ai ragazzi fino alla noia. Le imprese facili non mi entusiasmano. Mai pensato di essere licenziato, la storia mi ha ripagato da due grandi delusioni. Ora ho realizzato un sogno e vado ad ubriacarmi di gioia». Del copione scudetto fa parte anche l'ultima di Mancini. «Quando Sven mi ha tirato fuori, ho provato un brivido e tanta tristezza. Adesso mi ritrovo qua a raccontare una favola ancor più bella, perché sofferta, di quella di nove anni fa a Genova. Non potevo nemmeno sognare di chiudere così. La dedica e' per la mia famiglia, i miei compagni e il meraviglioso pubblico della LAZIO. Tre anni fa scelsi Roma perché convinto che anche nella capitale sarebbe tornato il momento di vincere lo scudetto. Io alla LAZIO come vice di Eriksson?». Mancini sorride, ma il suo futuro e' questo. «Incredibile». Diego Simeone, l'alfiere di un gruppo che non indietreggio' di un passo anche quando era a -9 dalla Juve, ha la testa tra le mani, immobile. Veron è una sola parola: la felicità. «Da qui non mi muovo più». Almeyda dimentica le ultime esclusioni: «Se, come avevo deciso tre anni fa dopo l'esperienza a Siviglia, mi fossi ritirato in Argentina. chi mi avrebbe regalato un'emozione simile?. L'urlo e' quello di Pancaro: «Siamo i più forti al mondo». Il boato e' di capitan Nesta (che con Mihajlovic ha dato vita via radio a cori contro la Juventus): «Nel calcio esistono i miracoli, sono di Roma e laziale da una vita. Cosa posso pretendere di più, se non altri dieci pomeriggi come questo?». Il finale e' di Pavel Nedved: «Chi ha fede, e io ce l'ho, non poteva pensare di essere beffato per il secondo anno consecutivo».