Torino AC

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Il logo del Torino
Il Grande Torino, perito nella tragedia di Superga del 4 maggio 1949

Le gare disputate contro il Torino
Le gare disputate contro il Torino B

Il campo Torino di via Filadelfia

Lo stadio Olimpico di Torino


Il Torino e il granata delle sue maglie sono indissolubilmente legati alla storia del calcio italiano. Oltre cento anni di vita, segnata da prestigiosi successi e grandi tragedie, che hanno legato il pubblico in modo viscerale al Toro. Nato nel dicembre 1906, il club si è sempre contraddistinto per alcune peculiarità: la passione, la grinta e lo spirito di sacrificio, caratteristiche fondamentali per legare il proprio nome ai colori granata. Sono 23 i soci che la sera del 3 dicembre 1906 si riuniscono nella birreria Voigt di Pietro Micca per dare vita al Football Club Torino. Primo presidente venne nominato lo svizzero Hans Schoenbrod, la prima gara ufficiale nel dicembre 1906, con un successo esterno a Vercelli. Le stagioni a seguire sono segnate da piazzamenti importanti, ma senza l'acuto del successo prestigioso. Nel 1914 il Torino, prima squadra europea, intraprende una tournée in Sud America, per quel periodo una vera e propria avventura. Sei gare ed altrettante vittorie per i granata che così si fanno conoscere nell'altro capo del mondo. Dopo lo stop dovuto alla prima guerra mondiale, il campionato riparte nel 1919. Cinque anni dopo insedia il presidente Enrico Marone Cinzano, che firma il primo scudetto granata. Infatti dopo il titolo revocato nella stagione 1926/27 il Torino l'anno seguente conquista il suo primo tricolore.

Nel 1936 arriva la prima Coppa Italia e, tre anni dopo il Conte Marone Cinzano lascia la presidenza e alla guida del Toro arriva Ferruccio Novo poi noto come il "padre" del GRANDE TORINO. Nasce così la squadra capace di battere tutti i record, di conquistare titoli in serie, ben cinque, di centrare la prima accoppiata Scudetto - Coppa Italia 1943 e di portare ben 10 calciatori in nazionale. Il Toro in quel periodo è simbolo di una nazione intera, reduce dalla seconda guerra mondiale. Il granata è il colore di tutti ed i ragazzi del Toro sono l'orgoglio dell'intero paese. Ma il destini crudele ed atroce è dietro l'angolo. Il 4 maggio 1949 l'aereo che riporta a casa i granata, reduci dalla trasferta di Lisbona, si schianta contro la basilica di Superga. In un attimo, in un maledetto attimo il Grande Torino non c'è più. Trentuno le vittime, fra atleti, dirigenti, giornalisti e membri dell'equipaggio. Rialzarsi per il Torino dopo la tragedia è difficile. I campionati seguenti vedono comunque un Toro competitivo e protagonista di piazzamenti decorosi. Purtroppo nel 1959, arriva però la prima retrocessione in Serie B. La risalita è comunque immediata, e nel 1963 alla presidenza sale Orfeo Pianelli. Ma un nuovo duro e tremendo colpo del destino è in agguato. Nell'ottobre del 1967 muore in un incidente stradale la "farfalla granata" Gigi Meroni, talento del calcio capace di far rivivere nei tifosi le emozioni dei campionissimi periti a Superga.

La conquista della terza Coppa Italia, nel 1968, contraddistingue gli anni sessanta. Il decennio seguente si apre con un nuovo successo sempre in Coppa e, nel 1976, arriva il settimo scudetto, il primo del dopo Superga, seguito da una serie di importanti piazzamenti negli anni successivi. A Pianelli nel maggio del 1982, subentra alla guida del club Sergio Rossi. Il Toro si conferma tra le protagoniste in campionato, ma l'abbandono di Rossi nel giugno del 1987, segna l'inizio di un periodo molto tormentato, segnato dalla seconda retrocessione della storia nel 1989. La finale Uefa, persa nella sfida contro l'Ajax e la vittoria in Coppa Italia nel 1993, sono tra i pochi raggi di sole di un decennio molto difficile che vede susseguirsi nella poltrona della presidenza del Torino nell'ordine Borsano, Goveani, Calleri e Vidulich fino al rischio fallimento del 2000. L'intervento di Francesco Cimminelli salva la società (nel frattempo nuovamente retrocessa) dall'onta della cancellazione del panorama calcistico cercando con non poche difficoltà di restituire al Torino quella credibilità e quell'orgoglio di appartenenza persi nel tempo.

Il Torino con la nuova gestione raggiunge subito l'obiettivo promozione (2000-2001), disputa un brillante campionato nella stagione successiva (2001-2002) per poi incappare quest'anno, complici scelte e valutazioni sbagliate, in una annata strana e balorda con il Torino che conclude la stagione ultimo in classifica e nuovamente retrocesso. Adesso si riparte con i granata decisi a risalire nuovamente la china riconquistando la promozione nella massima serie che gli spetta di diritto almeno per tradizione e storia. Le scelte di Cimminelli e del presidente Romero hanno riportato alla guida tecnica del club uomini Toro come Ezio Rossi, Renato Zaccarelli e Cravero.




Un articolo di Indro Montanelli sulla tragedia di Superga del 4 maggio 1949:


La Gazzetta dello Sport del 5 maggio 1949
La Gazzetta dello Sport del 5 maggio 1949

Oggi, affacciandomi alla finestra, non ho visto giocare a calcio i ragazzini in piazza San Marco, sulla quale guarda la mia casa, tra i resti delle bancarelle che vi tengono mercato il lunedì e il giovedì. In genere, ce n'è una nuvolaglia, affaccendati a correre dietro palle, di tutte le categorie e di tutte le età: scolari delle scuole medie con la cartella dei libri abbandonata in un angolo e le dita macchiate d'inchiostro, garzoni di fabbro con la tuta sudicia di morchia, apprendisti parrucchieri con la chioma lustra di brillantina. Li conosco tutti dai nomi di battaglia che si son dati: "Mazzola" è un tracagnotto biondastro dalla faccia larga e ridente; "Gabetto" un bruno esile e nervoso che ha la specialità di non scomporsi i capelli nemmeno nelle fasi più focose del giuoco; "Bacigalupo" è quello che, in genere, difende la porta, sorprendentemente agile per la sua rotonda corporatura; eppoi "Castigliano", "Menti", "Loik", "Ballarin", "Maroso", e così via.

Ci sono, ci sono stati tutti i giorni, in piazza San Marco, a giuocare: non so da quando, forse da sempre. Si allenano per la grande partita della domenica, quando si mettono in maglia e mutandine, e allora, ai margini, si raccoglie anche il pubblico dei passanti a guardare. In una di queste partite, uno di essi che si chiamava "Grézar", fu degradato sul campo: cioè i compagni gli tolsero quel nome, e gliene diedero un altro, più modesto. Oggi la degradazione è stata generale. Sparpagliati a gruppetti, ai quattro angoli della brulla piazza, a semicerchio intorno a uno che leggeva un giornale sgualcito, i ragazzini di San Marco avevano ripreso ognuno il proprio nome di tutti i giorni, quello col quale il maestro, a scuola, li chiama a recitare la poesia di Aleardi e il padrone della bottega li iscrive nel sindacato dei "praticanti". E così "Mazzola" non era più che Dubini Mario, alunno della "quarta B". Era lui che leggeva il giornale ai compagni, sedutigli attorno in semicerchio, e ogni tanto approfittava della ciocca di capelli che gli scendeva sulla fronte per ritirarsela su, e passarsi, intanto, la mano sugli occhi.

I suoi compagni più piccoli quelli che, in genere, venivano adibiti, nelle partite della domenica, a raccogliere le palle che uscivano in "fallo laterale" (quante volte ho rabbrividito, alla finestra, vedendoli guizzare fra un tram e un'automobile!) e che aspiravano a diventare, a loro volta, Loik, Gabetto, Bacigalupo e Maroso, stendevano, a una a una, per terra, come un generale distende la sua truppa, le figurine dei popolari giocatori, di cui ognuno di essi è, più o meno, ricco collezionista. C'era un po' di vento, e il pulviscolo di rena, che esso trascinava nella sua corsa, ogni tanto ricopriva una di quelle figurine, minacciando di sotterrarla; ma subito il collezionista la spazzava via, passando col dorso della mano una lieve carezza sul cartoncino e poi soffiandoci sopra, puntualmente. Sono ancora gli unici, i ragazzini di piazza San Marco e di tutta Italia che si ostinano a lottare contro i tentativi della rena di inghiottire i loro diciotto eroi. E le figurine che li rappresentano nell'atto di calciare la palla o di ghermirla al volo, continuano ad essere oggetto di un affettuoso e reverente mercato, seguitano a passare di mano in mano, come vivificati per l'eternità dalla rispettosa ammirazione che suscitano nei loro giovani emuli.

Per la partita del 22 maggio con l'Austria, se si farà, il collega Carosio, miracolosamente scampato al disastro, dovrebbe fare, per i ragazzi di tutta Italia, una trasmissione speciale, ribattezzando col nome degli scomparsi i loro sostituti. - Mazzola passa a Menti; Menti indietro a Castigliano...- dovrebbe egli dire al microfono; chè almeno ai ragazzi non sia tolta l'illusione dell'immortalità. Sono appena cinque giorni che li abbiamo visti giuocare l'ultima volta, qui a Milano. La squadra era incompleta. Ci mancava anche il suo capitano, Mazzola. Ma presente era l'orgoglio della bandiera, e fu questo che non le consentì di ammainarsi. Quella sera, a Milano, serpeggiava lo sconforto perché la squadra della città rivale si era cucita sul petto, proprio lì a San Siro, il suo quinto scudetto. E già domani l'erba comincerà a crescere sulla tomba di quei diciotto giovani atleti che sembravano simboleggiare una omerica, eterna, miracolosa giovinezza. Come possono rendersene conto i ragazzi di piazza San Marco e i giovani di tutta Italia?

Gli eroi sono sempre stati immortali, agli occhi di chi in essi crede. E così crederanno i ragazzi, che il "Torino" non è morto: è soltanto "in trasferta". Ma anche a noi, che con animo di ragazzi abbiamo sempre frequentato e seguitiamo a frequentare gli stadi, sia consentito immaginare i diciotto atleti del "Torino", "in trasferta". Oh, non ci è difficile raffigurarci il grande campo che, lassù, li attende: senza limitazione di posti, lastricato di erba eternamente verde e molle, senza macchie di nuda terra. La squadra campione, con tutto il suo orgoglio di bandiera, ha voluto recarvisi a carico pieno: non solo gli undici "titolari" ha condotto con sè; ma anche sette "riserve", e l'allenatore, e il massaggiatore, e il direttore tecnico, e perfino tre giornalisti. Vecchie conoscenze attendevano all'aeroporto quel velivolo carico di giovinezza e di speranza. E come facilmente le ravvisiamo! In prima fila Emilio Colombo, l'Omero dello sport italiano, forse l'unico tra noi che abbia serbato, sino a sessant'anni, intatta, la facoltà di credere nell'immortalità degli eroi. È lui, è lui: rossiccio in viso, alto e gagliardo, con lo stesso abito chiaro di gabardine con cui partì per l'ultimo "servizio", e, per la prima volta in vita sua, non si portò al seguito nè un baule con sette vestiti, sette paia di scarpe e settanta camicie di ricambio, nè una vasta collezione di saponi e profumi, nè una vasca da bagno di caucciù.

Accanto si tiene, in un gesto di affettuosa protezione, Attilio Ferraris che di poco lo precedette. Ferraris è ancora in "maglietta", perché in maglietta partì per la grande "trasferta", come Caligaris, mi sembra. Essi non rientrarono, infatti, negli spogliatoi, dopo l'ultima partita casalinga: dallo stadio di quaggiù a quello di lassù, tutto d'un fiato. E Neri? Eccolo lì, col suo lungo naso. Quella del "Torino" fu proprio l'ultima sua maglia, e non l'abbandonò che per ammantarsi di tricolore, dopo che i Tedeschi l'ebbero fucilato su una collina di Romagna. Ma ora rientrerà in squadra con i compagni; sarà il diciannovesimo campione d'Italia in quest'ultima definitiva "trasferta". Ascoltate, ragazzi di San Marco e di tutta Italia, ascoltate la radiotrasmissione di Emilio Colombo, che ha ricevuto dalle mani di Carosio, per oggi, il microfono. Domani, poi, ne leggerete le fasi nelle corrispondenze di Casalbore, di Cavallero, di Tosatti, i fedeli bardi di tante imprese gloriose, ai quali lo sport concedeva il meraviglioso privilegio di serbarsi fanciulli sotto i capelli che ingrigivano. "Mazzola passa a Menti, Menti indietro a Castigliano... (e qui la voce si fa concitata, e i ragazzi di San Marco e di tutta Italia si stringono, con gli occhi dilatati dall'emozione e dalla speranza, intorno all'altoparlante)... Castigliano avanti di nuovo a Mazzola che dribbla uno... due... tre avv... goal... goal... ".

Chi grida così, chi grida? Siete voi stessi, ragazzi, o il vecchio Colombo, l'unico tra noi che sia riuscito a serbare, intatta, sino a sessanta anni, la facoltà di credere negli eroi? O tutta la folla di quell'immenso stadio senza limitazione di posti in cui il "Torino" è andato a carico pieno (undici "titolari" e sette "riserve") a giuocare la sua ultima vittoriosa "trasferta"? Triste è piazza San Marco, calva di alberi, con le sue gialle chiazze di terra senz'erba, con i suoi gruppetti di ragazzi spogliati dei loro nomi di battaglia e senza palla, solo con le figurine allineate tra le pozzanghere. Le due squadre che vi giuocheranno domenica hanno deciso di portare il lutto: un segno nero al braccio, sulla maglia. I passanti si fermeranno, come sempre, a guardare; ma invano tenderanno l'orecchio per udire: - Forza Maroso... bravo, Bacigalupo... - nelle fasi salienti della partita. Domenica i giuocatori si chiameranno soltanto Dubini Mario, Rossi Francesco, Bianchi Giuseppe, e giuocheranno in silenzio, senza apostrofarsi. Domenica, otto giorni soli saranno trascorsi dall'ultima partita a San Siro dove il "Torino", solo a furia di orgoglio, si ricucì sul petto il quinto scudetto che inalienabilmente gli spetta (e voglio veder chi oserà portarglielo via) ma già i primi esili fili di erba saran cresciuti sulle diciotto tombe della squadra in "trasferta". "Forza Torino!", "Vinci Torino!".



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