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Abbiamo scritto la storia della Lazio insieme. Ma tu, di più. Fabio per sempre...
Proseguiremo la strada da te tracciata per l'amore dei nostri colori che tu amavi con il cuore. Ti immaginiamo già nel firmamento biancoceleste dove starai cercando nuove storie, nuovi elementi da poter raccontare ai lettori con il tuo stile inconfondibile. Buon viaggio nostro grande Maestro! Guida ancora LazioWiki ovunque tu sia, adesso più di prima!
Con affetto sincero, i tuoi amici di LazioWiki.org
• Il nuovo libro di LazioWiki.org: "Aquile sul Tevere" di Marco Impiglia
• L'ultimo racconto pubblicato di Olimpicus: Aurora
Il ricordo di anni lontani...di fango e di dura terra spaccata dal sole..una sfera di cuoio arpionata tra traiettorie rette e spezzate... colori infantili di maglie che fuggono come il tempo impietoso. Passati odori di cuoio, di fango, di terra, di sole...
Occhi socchiusi rassegnati. La gamba rossa di sangue rappreso. Braccio disteso calzato da assurda scarpa. Compagni ansiosi austeri monumenti fanno corteo al povero eroe. Solo il pietoso masseur sa come lenire il dolore di vittima di troppa vitalità
Un cielo troppo piano per essere reale. Un'idea di cielo custodita nella memoria. Tralicci e grovigli, angoli vivi e ombre nere. Solitudine di sabbia umida. Masse colorate che celano l'orizzonte. Verde catafalco che racchiude passate speranze.
Cinque azzurri, arancio e giallo. Verde nido che abbraccia splendori rosati. Una finestra discrimine tra corpo e spirito. Arabeschi di Matisse su mosaico del Bosforo.
Scorcio aberrato di caseggiato dai tanti occhi chiusi sulla vita. Cielo terso ma senza respiro. Sole che acceca vecchi muri e straduzze stracotte. Alberi prepotenti. Stretta porta che non invita a passare. Il mistero al di là di essa.
Dimore degli uomini ancorate su un cielo capovolto. Lievi, trasparenti, diafane. Corrusco fortino che ospita respiri e sudori di un'umanità che teme la luce, teme il pulsare di un cuore reso pietra da sentori di morte. Un progresso arrogante che turba antica quiete.
Casette come dadini di intonaco colorato sommerse di erba e lavanda. Così come le ricorda la memoria, non come le vedono gli occhi. Luce trasparente che sedusse Cézanne, illuse Van Gogh, non turbò Picasso. Semplice bellezza in terra di Francia.
Graniti dal terrazzo dello scultore Mazzullo - 1966
Malia d'equilibrio tra uno spazio mentale al modo di Paolo Uccello, un'esigenza di comprendere e porsi a misura di esso e il tempo che passa, corrode muri, genera polveri di calcina. Contemplazione e azione, immobilità e caducità in eterno confronto.
La chiesa di San Basilio a Graniti (ME) oggi
Paolo Uccello: Il miracolo dell'ostia profanata - 1466
Mi piaccio o non mi piaccio? Non lo so. Di certo ho un corpo immenso. Ho il collo taurino, il mento imponente, delle belle labbra dalla forma agile, naso mascolino, occhi eleganti. Il mio torace è imponente e sono un atleta. Sono forte, possente, virile. Il mondo lo guardo dall'alto in basso, sempre a testa alta. Ma c'è qualcosa..i miei occhi, le mie labbra, il mio naso. C'è qualcosa in me che non riesco a scorgere negli altri. Come lo chiamereste voi che mi guardate? Sopra i miei occhi muscoli immensi, a fior della mia pelle scorzuta, dietro i miei modi virili, dentro la mia figura, chi si nasconde? Lo vedo sotto i contorni dei miei occhi semichiusi, nella misteriosa forma delle mie narici, sul filo nero e concavo delle mie labbra sprezzanti e mi ossessiona. Da atleta quale sono, ritengo, anzi so, di avere un corpo. Ma c'è questa voce che dentro me mi sussurra: "No tu sei un corpo". E questo sussurro, apparentemente di poca importanza mi si presenta, scimmia malefica, frenetico folletto e mi tormenta. Mi tormenta quando allo specchio vedo il mio corpo immenso, quando in allenamento sento le mie carni tendersi, le vene pulsare come viuzze gremite di sangue..e in questo sangue scorre il rombo silenzioso di ciò che sono. E poi riesco alla luce e sono solo un corpo, anzi ho un corpo. Un collo taurino, un mento imponente, belle labbra, naso virile. Non riesce a dire niente questo mio corpo immenso. Resta in silenzio duro, come un tronco. Ma i miei occhi semichiusi - semiaperti...quelli urlano.
(Commento all'opera a cura di Giuseppe Zampetti, 18 anni, studente di classe terza del Liceo classico "Giulio Cesare" di Roma).
Donne africane in un villaggio – anteriore al 1945
Solenni sagome ben piantate sulla terra come apostoli di Masaccio. Vivono, tribolano tra puri volumi bianchi e candidi velli di miti animali tra strisce di luce lontane ma vicine ad un cuore che le sente.
Orda di forme aggrovigliate e caotiche che si staccano morbide su fondi impenetrabili. Principi vitali e cellule organiche prive di ogni struttura geometrica.
Segni reiterati ed ossessivi. Ritmi studiati ma compulsivi. Brulichio di spettri che alludono a stati d'animo insondabili e impenetrabili. Plumbee sbarre di surreale prigione.
Senza titolo – s.d.
Sindone disfatta piange i propri occhi di lago. Tragica acherotipa come di rughe dolorose coperte da velo di antiche speranze mai divenute
concrete.
Sindone pietosa che nel suo orrore non spaventa ma consola per quieta morte attesa da sempre.
Negazione della forma che diviene, però, sempre più ingombrante. Sagome che si fondono e si compenetrano in suggestiva contiguità. Solidarietà tra personaggi primitivi (o troppo evoluti?) che si scambiano residuo ossigeno in un'atmosfera malata.
Scaglie materiche di lame taglienti, cellule ampliate da prodigiosa lente che scruta strutture misteriose che hanno trovato equilibrio e compattezza salvifici sull'orlo del baratro della dissoluzione.
Figure rosse – s.d.
Lava di sangue vivo che scivola sulla scabra pietra di un sepolcro.
Piccole figure senza resurrezione che annegano in screziato carminio.
Occhi fissi sul dolore di un'umanità scossa da un caldo tepore rappreso sull'anima del mondo.
Muta torre ghibellina, scale e sbalzi. Guerriero immobile convitato di pietra, silenzioso, vano custode di un borgo senza uomini. Metafisica presenza di un tempo che più non scorre. Lunga ombra di un'eternità che inquieta.
Giorgio De Chirico: L'enigma della partenza - 1914
Forme che modificano continuamente il loro aspetto cromatico. Colori del cielo, della terra e dell'acqua. Il fondo grigio polvere come precarietà esistenziale.
Intrigo di linee miste. Esigenza di razionalizzare esperienze umane troppo angosciose. Colori estenuati e screziati in fase di scolorimento. Strati di storia che svaniscono senza clamore.
Vitalità energica dei colori in continua evocazione di profumi freschi ma acidi dei fiori che appaiono pestati, già innervati di morte. Caos apparente in un ordine ben preciso di tinte fredde circondate da calde cromie come dolce funerale senza dolore.
Fiori della mente che la retina non cattura. Solo ricordi. Anime di fiori che vengono precipitati in basso sulla destra e risalgono a sinistra. Seguono l'ordine supremo che viene dal centro. Giudice terribile, titanico e inesorabile della natura in divenire in un giudizio universale michelangiolesco.
In un'atmosfera compatta e irrespirabile, quasi oppressa da terribile calura, quattro figure si allungano sinuosamente verso l'alto: spiccano sullo sfondo screziato che ricorda l'aria tremante di un caldo giorno estivo o una ruvida corteccia antica.
Di verde smeraldo e rosso carminio sono i colori di anime primitive e irreprensibili, sono le tinte di una natura vergine e incorrotta, cui le unisce un legame intimo come quello di una madre con il feto che porta in grembo: sono cordoni ombelicali impiantati nell'utero della terra.
Figure contorte, quasi animalesche, che rievocano le spire dei serpenti, il lungo collo delle giraffe o le eleganti forme dei fenicotteri: sono le donne africane, fiere e incorruttibili, emblema della fecondità e della femminilità, investite di un così alto ruolo nel cerchio della vita.
Un'opera in cui riecheggia l'urlo ancestrale e primigenio della natura, ritmato dal rullo dei tamburi.
Le suggestioni esotiche, il colore, l'aura di velata nostalgia che permeano il quadro lasciano intuire l'affetto e il ricordo struggente di quell'Africa astorica e senza tempo che tanto è affine a quel che scriverà Moravia venticinque anni dopo l'esecuzione di quest'opera sclaviana.
I "Personaggi" che posano in fila nell'assordante silenzio della natura altro non sono che i ricordi del pittore mentre si susseguono in una sfilata variopinta nello sfondo viscoso del creato.
(Commento all'opera a cura di Margherita Gallo e Oscar Schiavo, studenti di classe terza del Liceo classico "Giulio Cesare" di Roma).
Figure consumate e corrose. Contorni di sangue indelebile. Trama di esistenze vissute insieme, ma senza mai incontrarsi in un mondo che appare tela viscosa di ragno.
Anime riunite si compenetrano nei colori del fuoco come spighe di grano che attendono la falce. Idolo ovale di resurrezione e celeste manto mariano che, aperto, avvolge e protegge cosa resta di uomini che un tempo furono eroi.
Borgo corrusco o faglie rocciose? Radici strappate dalla terra di fronte ad un'acqua lustrale in cui rigenerarsi per tornare alle radici dell'umanità. Calura di fuoco che scioglie figure di cera. Ghigni primordiali di fronte alla natura di argilla e d'erba, rantoli di luce accecante sull'alba del mondo.
Uomini-radice perplessi di fronte alla bianca strada che va alla montagna. Vogliono davvero abbandonare il verde prato della semplicità e purezza? Ma è pur sempre una strada che porta alla conoscenza, ardua da raggiungere, ma da cui non esiste via di ritorno. Irrevocabile scelta. C'è solo ciò che rimane del reale. Un'Africa? Forse. Non vista ma raccontata per segni; un continente mentale. Non descritto ma evocato.
Fondale senza profondità. Piatta abituale presenza di case solide che imprimono sicurezza, argine di angusta Liguria spinta nel mare. Caldi colori di sempre, turchine volte a crociere, rampe infinite. Calore asfissiante, colore pacificatore. Ma quali enigmi la storia ha celato dentro quei muri antichi?
Desiderio di fermarsi nella nera casa dalle ante spalancate sull'alba ma che non guardano l'orizzonte di un mare cobalto troppo vicino. Consapevole nostalgia di ciò che è trascorso. L'inizio di una nuova vita senza passioni. Energia e dolcezza.