Olimpicus - Le meraviglie del mio Subbuteo ai tempi della grande Lazio

Da LazioWiki.

Uno dei tanti volumetti che sono apparsi a ricordare la leggenda del Subbuteo
La FA Cup nel 1973
La scatola della Lazio e come veniva indicata nei cataloghi, erroneamente uguale al Napoli. Giusto, invece, l’accostamento con il Man City, il Malmoe e il Monaco 1860

OlimpicusEagle.jpg RUBRICA LETTERARIA "I racconti di Olimpia" di Olimpicus per LazioWiki



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Sono reduce dalla solare Sicilia, il pc è sul tavolo e basta poco per scendere a picco, come un Maiorca o un Mayol, nel blu profondo della memoria per scovare tane abitate da pesci coloratissimi. Non so perché, ma questa volta è riapparso il "Subbuteo". O forse sì, lo so il motivo: navigando sul web, mi sono imbattuto in una serie di libri sul quel gioco antico, probabilmente il più bello che abbia allietato la mia adolescenza. Vero che c’erano i giochi da tavolo tipo Rischiatutto, Monopoli o Scudetto, ma il verdissimo Subbuteo li superò tutti di gran lunga. Correva il 1971. Sullo stesso pianerottolo della mia casa a via Monti di Creta numero 85, giusto davanti all’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, stava un amichetto romanista che, un tetro pomeriggio d’inverno, mi invitò a inaugurare un gioco che gli avevano regalato per la Befana. Era il Subbuteo, ma non quello del calcio bensì del rugby. Ho sempre immaginato che gli avessero messo nel sacco dei giocattoli il rugby perché costava meno. Trafficare con la trappoletta dello "scrum", che replicava le mischie, fu divertente ma non entusiasmante. Tuttavia, colsi al volo la notizia che c’era in commercio una variante dedicata al football.

Mia madre fu praticamente obbligata ad accompagnarmi al famoso negozio d’angolo a piazza Navona, Al Sogno, che esiste ancora con la stessa insegna. La missione era acquistare il nuovo gioco del calcio arrivato dall’Inghilterra. Si trattava dello scatolone – verde mi pare – che celebrava i Mondiali appena disputati in Messico. Le quattro squadre erano l’Inghilterra, l’Italia, la Germania e il Brasile. Nella scatola quadrata di cartone c’erano le porte, il panno verde, le istruzioni in italiano. La volta dopo fui io, assieme al mio fratellino, ad invitare l’amico giallorosso a casa, Enzo si chiamava, per mettere in scena qualche "derby" col calcio da tavolo più fantastico che potesse capitare tra le mani a tre bambini romani cresciuti negli anni sessanta. All’epoca non lo sapevo, ma il gioco era abbastanza vecchio. L’aveva inventato prima della guerra un inglese, tale John Lane Keelings, utilizzando materiali rozzi come bottoni, cartone e caucciù, e le porte fatte col fil di ferro. Noi, invece, avevamo a disposizione l’evoluzione della plastica e la produzione industriale in serie.

I giocatori erano rigorosamente pitturati a mano, le basi rotonde escluse, e replicavano a perfezione le divise delle squadre. Un vasto catalogo consentiva di scegliere tutte le squadre che volevi, anche le più incredibili e sconosciute. Nel giro di pochi mesi, praticamente tutto il civico n. 85, e anche l’83, in età dagli otto ai tredici-quattordici, era impegnato in tornei di subbuteo. Ogni pischello si comprava a suon di piotte il proprio undici del cuore, la Lazio, la Roma, la Juve, il Milan o l’Inter, il Cagliari di Gigi Riva magari, e credo che la moda si sviluppò fulminea a Roma, o per lo meno nei quartieri borghesi, come per l’appunto l’Aurelio, dove gli adolescenti potevano spendere decine di migliaia di lire per gli accessori. Che erano tanti, tutti made in England e tutti "sghiciosi", a cominciare dal panno verde di centimetri 60x110 con segnate in bianco le linee. Poi c’erano il tabellone, il palchetto per le riprese della Tv, la terna arbitrale, gli allenatori e i cameramen di bordo campo, il player speciale col supporto in metallo per eseguire i falli laterali, quello per i corner, i numeri da appiccicare sulle spalle dei giocatori, le staccionate di plastica verdi, alle quali applicai finte pubblicità e gli stemmi adesivi delle figurine e del Guerin Sportivo.

Chi voleva fare le cose in grande, poteva acquistare le alte tribune all’inglese divise per settori, e i riflettori. Essenziale, tuttavia, era il set "plastic fence surrond" che permetteva di cintare il terreno di gioco, ossia il panno, creando una barriera che impediva ai giocatori di schizzare fuori e di rompersi, cadendo da un metro d’altezza sul pavimento di piastrelle senza il conforto del tappeto. Infatti, avevo inchiodato il panno su una tavola di compensato rimediata da un falegname alla Circonvallazione Cornelia. Tavola leggerissima ma robusta, che non si piegava e poggiava su due sedie alte di quelle del salotto, così che l’intera stanza si potesse trasformare in un attimo in uno stadio. Precisamente, la stanza dove dormivamo, giocavamo e studiavamo io e il mio fratellino biondo milanista, riveriano accanito, con i letti che rientravano e il lampadario che funzionava da riflettore in stile "incontri ravvicinati del terzo tipo"; ovviamente, il lampadario a otto bulbi con i pendagli a goccia di cristallo si accendeva per le partite in notturna. Un giorno di lì a una decina di anni, ne avrei fatti staccare cinque di goccioloni, zompando al terzo gol di Paolo Rossi al Brasile nel Mondiale di Spagna. I giocatori infortunati li rincollavo col tubetto Uhu, ma non era la stessa cosa, e se cadevano una seconda volta passavano direttamente nel bidone dei rifiuti: fine anticipata della carriera come per il povero Francesco Rocca!

Al Subbuteo è legato il ricordo della vittoria sportiva individuale più importante (tutto è relativo...) della mia vita. Si andò – noi del gruppo Subbuteo di via Monti di Creta – in trasferta a via Angelo Emo, per sfidare il locale club di ragazzini assatanati del calcio a punta di dito. In palio la Coppa d’Inghilterra, ovvero la riproduzione metallica e in scala, assolutamente fedele, del trofeo che la ditta produttrice, lassù nel lontano Kent, aveva incluso nel novero dei super-gadget. Costava un botto ed era stata pagata con la tassa di partecipazione. Scendemmo giù, quel pomeriggio d’autunno, per una mezzoretta a piedi, belli spavaldi e chiacchierini attraverso la Valle dell’Inferno, transitando a lato dell’antica fornace industriale con la sua ciminiera misteriosa. Eravamo in cinque: una vera e propria spedizione di guerra in territorio nemico. Il torneo a dodici si disputò su campi in contemporanea in tre diverse stanze e andò avanti per sei ore. Ero il favorito, e quindi mi tremavano le gambe (il dito...), ma riuscii a spuntarla nella finalissima dopo un gol beccato a freddo. Quattro a uno finì, mi pare. Con tutti i partecipanti eliminati più una mamma col pupo in braccio, "ma quando finisce ragazzi!", a tifare per l’uno o per l’altro dei finalisti.

Il senso di felicità pura di ritornare dalla trasferta con la coppa d’argento fulgidissima nella sua scatolina preziosa, mentre i colleghi subbuteisti commentavano con esilarante vivacità e sproporzione da pescatori dilettanti i momenti salienti dell’impresa, è tuttora risonante nel mio cuore. Come è vivo il ricordo di un gol incredibile che capitò in quel torneo. Non lo realizzai io bensì "Franchino", il più matto tra noi: un tipo che saliva sui pini del giardino proibitissimo dell’IDI ed era capace di rimanere nell’ombrello delle chiome per ore, fino a notte, sospeso a trenta metri. Vi descrivo il gol, e chi fra voi ha giocato a Subbuteo può capire: corner da destra battuto con l’omino speciale, parabola lenta a spiovere – già questa una rarità – e la pallina, che era del tipo medio di colore bianco, che centra un giocatore in area ma dalla parte sbagliata della base, quella opposta alla porta. Forse per un effetto imprevisto, la pallina, invece di continuare la sua traiettoria fuori dell’area di rigore come la fisica quantistica avrebbe imposto, ribaltò a parabola verso la porta e infilò il portiere, che rimase fermo di stucco con la sua asticciola verde, paralizzato dalla sorpresa. Praticamente, un gol in rovesciata!

La mania e l’entusiasmo per il calcio vero negli stadi e per il suo magico surrogato casalingo, in quei tre, quattro anni di Austerity con la Lazietta di Tommaso Maestrelli, Pino Wilson e Long John che dalla Serie B andava a vincere lo scudetto, fu tale che cominciai a pitturare le squadre. Non solo le maglie, ma anche i calzoncini e i calzettoni, e perfino i capelli dei giocatori, col fine di caratterizzarli meglio: uno biondo come Re Cecconi, l’altro bruno e stempiato come Martini, il terzo castano come Pulici. Che fossero tutti uguali, come da scatola comprata per 3.600 lire al negozio, un nuovo negozio che stava d’angolo a piazza Irnerio, mi sembrava un completo nonsenso. Credo avessi stipati in due cassetti della scrivania almeno una ventina di squadre diverse, tra Lazio, Roma, vari club stranieri e nazionali. Tutte incasellate nelle loro scatole originali biancoverdi. La mia grande passione era il calcio britannico, e quando mio padre mi portò in dono da Londra la maglietta Umbro originale del Man United, mi venne in mente di allestire una FA Cup a casa mia, dove ormai giocavo da solo (mio fratello s’era stufato di perdere e aveva venduto i suoi rossoneri) e facevo vincere chi mi pareva. I diavoli rossi del Manchester ma anche il Queens Park Rangers, che aveva le maglie fichissime a bande orizzontali bianche e blu, da me dipinte con le vernici per aeromodellisti e un pennellino ridotto a sette setole.

Poi, in un lampo, la moda del Subbuteo, tra i ragazzi di via Monti di Creta, tramontò. Si cresceva in statura e sopraggiungevano altri interessi. Io fui l’ultimo a cedere il campo, intorno al 1976. Ma ero rimasto solo soletto come un moicano, e mi mancò il coraggio di avventurarmi nei tornei più seri, i campionati ufficiali che avevano preso piede in varie regioni e città. Esisteva, con sede a Genova, una Associazione Italiana Calcio In Miniatura Subbuteo, affiliata a una Federazione internazionale il cui presidente onorario era Bobby Charlton. Competizioni bene reclamizzate, dove le regole si presentavano diverse da quelle naif che avevo praticato e mezzo inventato; ad esempio, la possibilità di tirare in contemporanea a due mani due giocatori differenti in maniera che l’uno incocciasse la palla dentro l’area di tiro in corsa: lancio di Frustalupi e stoccata furente di Giorgione Chinaglia. Manovra complicata che, ripetuta ossessivamente in allenamento (il figurino fornito dalla ditta aveva una tuta cilestrina simile a quella di Maestrelli, e io abbaiavo ordini ai piccoli calciatori-stiliti, che mi guardavano con quella faccia un po’ stupita che, davvero molti anni dopo, avrei ritrovato nel protagonista del film tedesco "Aus der tiefe des raumes"), determinò una strage degli innocenti tra i biancocelesti, vittime di un abuso non previsto dai regolamenti. Ma non fa niente: non sono stato un campione di Subbuteo e però la mia coppetta d’Inghilterra l’ho vinta, col permesso della regina Elisabetta (veniva consegnata davanti alla sua foto). E me la tengo ben stretta.





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