D'Annunzio e lo scudetto degli azzurri

Da LazioWiki.

Settembre 2019

Recentemente, il nostro sodale dott. Marco Impiglia ha partecipato alla settimana dannunziana a Pescara, dove ha parlato - al cospetto del presidente della Figc dott. Gabriele Gravina - della sua scoperta dello "scudetto" inventato da Gabriele d'Annunzio a Fiume nel febbraio del 1920. Ma la cosa non è finita qui. Ecco un'anticipazione del lavoro che Impiglia, col supporto del giornalista Mediaset Giammarco Menga, sta tuttora svolgendo sull'argomento. Coll'intento di arrivare a ricostruire la storia completa, dal 1920 ad oggi, del più amato simbolo dello sport italiano. E, anche qui, c'è una entusiasmante novità: fu il "Grande Torino", nel primissimo dopoguerra, a lanciare l'attuale scudetto "repubblicano" che campeggia sul logo del Coni e sulle maglie degli Azzurri del calcio e in tante altre discipline. In sostanza, una storia affascinante, patriottica, specchio dei cambiamenti sociali e istituzionali del Paese, e che coinvolge alcune "eccellenze" dello sport e della cultura nazionale.



D'Annunzio e lo scudetto degli azzurri

Marco Impiglia



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Due parole sul Vate


Io ho quel che ho donato. Il motto scolpito all'ingresso di Villa Cargnacco, la casa-museo sul lago di Garda ribattezzata "Vittoriale degli Italiani", introduce bene al tema. Molto Gabriele d'Annunzio ha dato allo sport. A cominciare da quel triangolino di stoffa verde-bianco-rossa, inventato per la squadra di football dei "legionari" durante l'impresa di Fiume, nel febbraio del 1920, e che oggi compare sulle maglie degli Azzurri. Come lo scrittore e drammaturgo Yukio Mishima, cultore delle arti marziali e conservatore decadente della nostalgia nipponica, d'Annunzio concedeva molto del suo tempo alla cura dei muscoli. Ma, guarda un po', si dilettava anche a ricamare. Vorrei partire con un dettaglio sul corpo del Vate: sapete perché era calvo? Pare che la calvizie sia stata originata da un duello alla sciabola, che lo vide ferito al capo e medicato lì per lì con una dose abbondante di percloruro di ferro. Furono quattro i duelli sostenuti da Gabriele, uno dei quali concernente lo sport preferito: la caccia alle donne. Ho visto con i miei foschi ocula le sue camicie col buco in zona acconcia, atte al cucù rapido. Se le preparava da solo, abile con l'ago e il filo, così come era bravo nello schizzare disegnini a matita degli esercizi fisici da camera cui dedicarsi nel quotidiano.

Gli sport praticati? Diversi, e tutti aristocratici. Il superomismo lo portò a volare su Vienna irridendo gli austriaci, con foglietti tricolori lasciati cadere a pioggia sui cavalli lipizzani; e poi a scherzarli a bordo di motoscafi speciali, i Mas, nell'altrettanto famosa "Beffa di Buccari": quasi un dribbling in area di rigore biancorossa. Fu biciclista, yachtman, nuotatore, pugilatore da camera (teneva un punching-ball formato da una palla truccata da femmina bionda, con vere trecce spioventi...), scalatore del Vesuvio. Il calcio no: diede appena due pedate nude a un pallone sulla spiaggia di Francavilla a Mare, coll'amico musicista Francesco Paolo Tosti, e ne perse due denti per un capitombolo faccia in giù. L'ippica cinegetica sì: oltre che cronista mondano su La Tribuna, intorno al 1885, nel fulgore della gioventù se ne andava la domenica alle Capannelle a seguire le gare di trotto. E, dieci anni dopo, si dilettava in frack rosso e plastron nei "meets" di fox hunting insieme alla nobiltà anglofila romana. Potete immaginarne il motivo. (Scendere dalla bestia e appartarsi sotto il salice con la lady di turno era un attimo). Giovanni Pascoli, invidioso e misero, ironizzò su questo. I cavalli frementi e i loro altrettanto frementi cavalieri, i duelli di scherma, stanno belli in schiera nei libri. Ricordo la descrizione, minuziosa e degna d'un jockey professionista, della partenza d'una corsa a ostacoli ne Il Piacere.


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Caccia alla volpe nella campagna romana, 1891 (foto di Pietro Sbisà)


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I suoi guantoni da boxe oggi conservati al Vittoriale. Nella villa alla Capponcina con i levrieri



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Arringa la folla al Campidoglio prima di partire per Fiume



Lettera da Fiume al CC Aniene di Roma, di cui era socio assieme al figlio Gabriellino

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Ospite al Reale Club Canottieri Aniene dopo l'impresa fiumana.
Alla sua destra riconosciamo il fondatore della Canottieri Lazio, l'aviatore Olindo Bitetti


E poi i motori. Come i Futuristi, il Vate fu terribilmente attratto dall'urlo moderno, perché mai udito, dei pistoni d'acciaio. Fu aviatore e corridore in motoscafo. Conobbe il motociclista e automobilista mantovano Tazio Nuvolari e gli regalò una tartaruga d'oro. Ebbe macchine favolose, una Isotta blu e rosa ad esempio. Esiste un carteggio scambiato con Giovanni Agnelli senior che comprova come sia stato lui a mutare il genere francese maschile dell'"auto". Motivando impeccabilmente: L'automobile è femminile: ha la grazia, la snellezza, la vivacità d'una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Fu olimpionico? Quasi. Nel 1922, sull'onda delle avventure bellico-sportive, fu premiato dai lettori dalla Gazzetta dello Sport come "atleta dell'anno". Così la prima edizione del Premio Costamagna andò a lui, e non al marciatore Ugo Frigerio che aveva vinto due ori alle Olimpiadi di Anversa. Logopoieta naturale, coniò motti per federazioni sportive, ne ricordo almeno due per la federazione atletica e per quella di canottaggio. Era socio dell'Aniene, e con lui uno dei tanti figli più o meno riconosciuti: l'amato Gabriellino.

Amava gli animali quanto le donne; sulla scorta del Concilio di Mâcon, indubbiamente. Nel suo soggiorno ad Arcachon, non lungi dall'oceano Atlantico in Guascogna, sullo scorcio della belle époque viveva indebitato in una villa con parco sovraccarica di mobili e vezzi, allevando una muta di levrieri ("l'unico cane che vale la pena di avere, perché indipendente") dai nomi altisonanti che utilizzava per vincere premi nei cinodromi parigini. Era un buon nuotatore, forse perché non poteva essere da meno di Lord Byron. Solcò a braccetto le acque tiberine, alla "Casa del Lorenese" ai Prati di Castello, dove aveva l'alcova d'amore con Barbarella, al secolo Elvira Natalia Leoni, eternata nei versi: La sera mistica. Sul Tevere, all'Albero Bello. E qui saremmo già in tema "Lazio", già. Se non che, il tema è lo "scudetto". In un recente documentario del bravissimo Giammarco Menga, giornalista aquilano on-the-go della scuderia Mediaset, nella sezione dedicata alla "invenzione dello scudetto" il direttore del Museo dannunziano, Giordano Bruno Guerri, introduce alla quaestio scuotendo la testa riguardo al "demente" (lo si intuisce) interesse del popolo per gli scudetti del pallone: a chi vanno, chi lo vincerà quest'anno, quanti ne hai tu e quanti ne ho io, eccetera. Un atteggiamento snobistico perfettamente comprensibile, che tra l'altro l'accomuna al Vate, che dei "calcisti", da giovane, non aveva rispetto niuno, considerando l'inglese football un gioco alquanto idiota. Ma nel '20 no, a quell'epoca aveva completamente cambiato idea. Tanto da spiegare al pubblico, presente al Campo di Cantrida nella seconda delle partite disputate tra i suoi legionari e gli sportivi locali, le origini italiche del game importato dal nord, vale a dire il Calcio Fiorentino.



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Sullo Sva-10 del volo su Vienna. Il manifestino lanciato con la bandiera italiana


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La dedica al pilota Nuvolari col regalo della famosa spilla tartaruga. La gara per motoscafi



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Dal giornale Il Messaggero, i primi voli del Vate nel 1909 a Brescia


Il momento della scoperta


Sapete che quasi sempre le cose belle arrivano per caso, inattese. Spesso il nostro unico merito è stare lì a raspare nella terra: audere est facere. Correva l'autunno del 1994 e noi si stava al soldo di Italo Cucci, il magnanimo direttore del Corriere dello Sport. Cucci era così inattingibile, e indiscutibile, per la sua truppa di corsari dell'Adriatico e del Tirreno, che nel suo sancta sanctorum, sulla parete in faccia al megaschermo Tv dove seguiva le puntate notturne del Processo di Biscardi, genitrici di "scub" dell'ultimo minuto, teneva appeso un ritratto impressionante di Italo Balbo. L'Italo mi aveva dato carta bianca (di pergamena, pagata benissimo) per una rubrica quotidiana dal titolo La Macchina del Tempo. L'avevo partorita io, ripensando a quel libro fantastico, The Time Machine di H. G. Wells, che rimane ancora oggi nella hit parade delle mie immersioni oniriche nel mondo della lettura; forse perché avevo dodici anni e sapevo sognare ad occhi aperti. Comunque, scrivere ogni santo dì un pezzo, seppure di poche righe, bello concentrato, su un avvenimento accaduto nel passato era uno sforzo non da poco, per un uomo solo al comando. Un élan coppiano, quasi. E non c'era un Bartali dietro a stimolarmi, a farmi smadonnare, a parte la pergamena suddetta. Così, solcavo gli archivi sotterranei del Corsport alla ricerca di news nei "libroni" impolverati (la collezione del giornale), e una volta a settimana prendevo il trenino a piazza del Popolo e andavo alla Biblioteca Nazionale Sportiva all'Acqua Acetosa, per ulteriori indagini sulle riviste d'antan. Un bel mattino, stavo lavorandomi la collezione de Lo Sport Illustrato, la rivista della Gazzetta dello Sport, quando mi comparve davanti, sbalzato in primo piano in copertina, Gabriele d'Annunzio. Si trattava del numero del 23 maggio 1920. Il Poeta Alato stava lì che arringava una fila di ragazzi in tenuta sportiva, con una divisa militare che, tutto sommato, a me sul momento ricordò certe vestizioni di Fidel Castro a Cuba. Grandi oratori tutti e due, per dire.

Entriamo in action. Cambiamo forma temporale. Nel silenzio sepolcrale della piccola Biblioteca, mi addentro all'interno e il riferimento, alla pagina 315, è a una "giornata di sport e virile goliardia" a Fiume, occupata da ormai nove mesi dai nazionalisti italiani. Capisco che si deve approfondire l'argomento. Ricomincio a sfogliare le pagine del librone rilegato da gennaio, perché una vocina mi sussurra che in ballo c'è altro: forse qualcosina per la MdT. Ed ecco che, sul numero del 21 febbraio, spunta un'altra pagina dedicata, tutta fotografica, dal modesto titolo: "Una partita di calcio a Fiume alla presenza di D'Annunzio". Ok, l'articolo wellsiano è fatto – penso – e invece sto scoprendo la penicillina perché, guardando meglio, lo scudettino tricolore cucito sulle maglie degli azzurri legionari mi lascia letteralmente a bocca aperta. Per me – lo ricordo ancora adesso con emozione – fu come intravedere una scintilla d'oro nel torrente in Klondike. Da quell'istante magico partì la ricerca seria, su altri giornali e altri testi, che infine sfociò in un articolone a tutta pagina sul Corsport del 21 maggio 1995. Cucci dettò il titolo, esattamente come d'Annunzio aveva dettato lo "scudetto repubblicano", tricolore ma senza lo scudo biancorosso dei Savoia dentro, per le maglie della squadra delle sue "teste di ferro": "IL MIO NOME È SCUDETTO. Storia dello stemma più amato dagli italiani". Il sottotitolo riportava alla Lorella Cuccarini, e anche uno dei numerosi catenaccetti aveva del genial-polemico e nazional-popolare insieme: "Una patriottica idea finita in sponsor". Ma tant'è: Cucci sapeva come legare un filo di Scozia a un giubbotto di pastore maremmano e far sembrare naturalissima e conseguente la cosa. Un giornalista formidabile. Tanto di cappello.



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L'articolo del Corriere dello Sport-Stadio del 21 maggio 1995 e il saggio letto al Foro Italico l'8 novembre 1997


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I passi dell'iconogramma


Quindi, per chi ancora (ma il web ce la dice...) non sapesse la storia: la domenica dell'8 febbraio 1920 l'Ufficio di Educazione fisica e Sport della Repubblica del Carnaro organizzava una partita di football al Campo di Cantrida, tra la roccia e il mare, mettendo di fronte una selezione di legionari (arditi, bersaglieri, aviatori, gente pazza...) e una mista confezionata con alcune delle squadre partecipanti al campionato fiumano, associazioni operanti già all'epoca dell'irredentismo antiaustriaco: Gloria, Esperia, Olimpia, Libertas, Juventus-Enea ecc. Partita pomeridiana e vittoria per 1-0 dei fiumani. Rivincita fissata di lì a qualche mese, il 9 maggio appunto. Sempre con d'Annunzio assiso in tribuna con lo stato maggiore. E sempre con quella tenuta speciale della "nazionale", camicia azzurra e calzoncini bianchi, ma, invece del piatto stemma biancorosso dei Savoia sul petto, lo scudo tricolore in foggia sannitico-antica. In sostanza, l'anelito al ricongiungimento con l'Italia della cittadina istriana. In barba agli accordi di Londra che di lì a poco avrebbero portato, col Trattato di Rapallo, alla costituzione di Fiume a città-stato indipendente.

Mussolini, grazie al Trattato di Roma stipulato con la Jugoslavia nel gennaio del 1924, consegnò poi Fiume al Regno d'Italia, col re Sciaboletta per la prima volta in visita già a marzo. In estate, il direttorio della Federcalcio stabilì che la squadra campione in carica (il Genoa FC) si sarebbe appuntata sul petto un "distintivo tricolore" come riconoscimento del titolo. Cosa mai successa innanzi: la serie ininterrotta degli "scudetti", infatti, inizia da quell'autunno del '24, e prima, sui giornali, si parlava di titolo nazionale non di scudetto. Le stesse rappresentative italiane, sia nel calcio che in altri sport, presentavano come simbolo lo scudo crociato della dinastia regnante, bianco e rosso contornato da un azzurro che rimandava al Regno di Sardegna. E, a dire tutta la verità, ancora per qualche tempo si accennerà soltanto al distintivo d'onore o tricolore. Fu con l'avvio degli anni '30 che entrò in voga nella terminologia calcistica e nel linguaggio comune l'iconogramma in forma di sineddoche dello "scudetto". E abbiamo il sospetto che molto merito vada attribuito al geniale disegnatore giornalista Carlin e alle sue vignette sul torinese Guerin Sportivo.

C'è una connessione tra lo scudetto dannunziano di Fiume e la decisione dello scudetto FIGC nel 1924? Questo non lo sappiamo. Non lo sapevamo venticinque anni fa e non lo sappiamo oggi. Stiamo svolgendo ricerche supplementari – assieme all'amico Menga – per appurarlo. In previsione c'è un bel docufilm con la storia completa dello scudetto dal 1924 ad oggi. Che è piuttosto articolata e non facile da dipanare. Riguardo alla genesi, purtroppo mancano le carte della FIGC degli anni Venti e Trenta, quasi tutte sparite per via della malnata guerra che facemmo alleati con i nazisti. Gli archivi della Federcalcio nel 1944 furono trasferiti da Roma (il vecchio Stadio) a Venezia e poi a Milano. E di lì in un buco nero di proporzioni cosmiche. Meglio bruciare tutto: un falò da qualche parte venne di sicuro organizzato.

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Lo Sport Illustrato del 21 febbraio 1920. Foto di Luigi Repetto


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Il Campo di Cantrida la domenica dell'8 febbraio 1920, il giorno in cui lo Scudetto nacque


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Due immagini della gara di Cantrida


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Ancora il Vate pescarese fa giocare i suoi "scudettati": è la domenica del 9 maggio 1920


Ma la Storia dello scudetto è bella lo stesso. Il Genoa lo portò con onore nel torneo 1924-25, in foggia svizzera però, con gli "incavati al capo", più svelto e l'apice basso appuntito. La prima volta in campionato cadde il 5 ottobre, per un Genoa-Cremonese 4-0 al Campo Marassi. Siccome i grifoni avevano la sezione rossa della maglia spostata a sinistra (oggi è il contrario), lo scudetto planò sul granata. Nel torneo 1925-26 lo tenne il Bologna, guadagnato un pizzico anche con l'uso delle pistole, inserendoci al centro lo scudo sabaudo (senza la coroncina) in omaggio alla bandiera. La Juventus la stagione dopo, 1926-27, accentuò la foggia svizzera (in lunghezza: quasi uno scudo femminile ovale), così che il "distintivo d'onore" divenne ancora più visibile sulle sue maglie. La casacca delle zebre, quegli anni, aveva tre striscioni neri sul davanti, e la consegna fu di cucire lo stemma sulla striscia a sinistra all'altezza del cuore. Si vede chiaramente nelle foto: tutti i giocatori con il simbolo allo stesso posto, mentre invece, prima, vagava abbastanza, rimanendo comunque dalla parte mancina, e qualche volta in zona centrale.

Nel 1927-28 il Torino FC partì col medesimo scudo della Juve, svizzero e un poco allungato, nel famoso torneo funestato dalla revoca del titolo appena vinto per un imbroglietto. Ma i granata rivinsero imperterriti e nel 1928-29 si adornarono di un vistosisissimo scudetto contornato da un bordo bianco; piuttosto brutto in quanto a estetica. Nel 1929-30 il Bologna di Leandro Arpinati – presidentissimo della Federcalcio – si inventò uno scudetto che era quasi un riassunto dei temi della politica: lo scudo tricolore col segno sabaudo e due potenti fasci a sorreggere l'impalcatura. Visto da lungi assomiglia a un bollo tondo, a un logo vero e proprio. La nera squadra della Dominante di Genova (Sampierdarenese e Doria unite in nome della razionalizzazione fascista), un paio d'anni prima aveva creato una chimera simile. L'ultima a cimentarsi nello sport "aggiustiamoci lo scudetto" fu l'Ambrosiana-Inter di Giuseppe Meazza, nel 1930-31. Una maglietta coloratissima, a strisce nerazzurre col colletto bianconero a scacchi, e lo scudetto bianco-rosso-verde leggermente più piccolo di quello arpinatiano: un unico fascio dorato e splendente di fili intrecciati con la seta. Una meraviglia: vorremmo averla in collezione, quella casacca del magrissimo "balilla".

Ma, dal torneo 1931-32, all change! Arrivano gli ingordi juventini dei cinque campionati vinti consecutivi. Combi-Rosetta-Caligaris eccetera: la super difesa. Il loro simbolo è di nuovo lo stemma dei Savoia, inclusa la coroncina sopra ma col fascio accanto, che quasi sormonta l'oro vecchio. (C'era venuta in mente una metafora più spinta...). Uno stemmino più piccolo nella fattura, epperò carino, d'impatto, lo stesso della nazionale azzurra. E tale rimarrà, intoccabile, fino al dopoguerra. Due Mondiali e una Olimpiade. Grazie Vittorio.



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Il Genoa Football Club nella stagione 1924-25, con lo scudetto in foggia svizzera


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Un'altra immagine di quel Genoa, in una partita con la Rivarolese
Nella foto successiva, i "rossoblu" entrano in campo


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Il Bologna 1925-26 fu il primo a inserire lo stemma sabaudo per riarmonizzare lo scudetto con la bandiera.
La Nazionale degli "azzurri", intanto, esponeva l'emblema rossocrociato.
Gli atleti sovente avevano una maglia bianca con la bandiera tricolore


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Carlin Bergoglio, l'inventore della zoologia calcistica, sul Guerin Sportivo del 1926 comincia
a dare una certa evidenza al "distintivo d'onore"


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La Juventus nel 1926-27 accentuò la vistosità dello scudetto


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Il Torino del trio d'attacco Baloncieri-Libonatti-Rossetti lo tenne due stagioni,
ma uno gli venne revocato per un imbroglio con la Juve


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Il Bologna del presidente della FIGC, Arpinati, nel 1929 per la prima volta
affiancò il fascio all'emblema tricolore, creando un "logo". Qui i campioni felsinei in una tournée in Brasile


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L'Ambrosiana-Inter 1930-31 fece suo quel logo "pastiche", ma la Juve glie lo strappò...


...e lo cambiò come voleva il duce Benito Mussolini: niente più tricolore
bensì lo scudo sabaudo con tanto di coroncina e il fascio a sostegno!

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Per un po' di anni, gli scudetti della "vecchia Signora" e della Nazionale
diventarono identici: chi è l'uno e chi è l'altro?


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Il settimanale romano Il Tifone, numero del 30 dicembre 1936. Sembra oggi, no?


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Il Bologna 1936-37, "lo squadrone che tremare il mondo fa":
il più fiero avversario della Juve in epoca fascista


Giambattista Vico parlava dei corsi e ricorsi storici. Con lo scudetto ci siamo vicini. È un loop. Nel 1947, quando la Svizzera finalmente accettò di giocare con gli azzurri di Pozzo campioni del mondo, che tutti rifiutavano in quanto ex nemici di guerra, la nostra nazionale, composta per nove undicesimi da torinisti e i due restanti juventini, il 27 aprile a Firenze si presentò con lo scudo sannitico dannunziano. Proprio quello spiccicato, perfino nelle angolature! La banda suonò l'Inno di Mameli. Il sublime Valentino Mazzola aprì le marcature. Il Torino s'era messo sul petto lo stemma già nella stagione 1945-46, senza aspettare il risultato del referendum popolare che il 2 giugno del '46 avrebbe registrato il passaggio dalla monarchia alla repubblica. A volte, il calcio precorre i tempi. Li annuncia. Li indica. Così come Gabriele d'Annunzio. Anche lui giocava d'anticipo.


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La A. C. Torino della stagione 1945-46, con lo scudetto "dannunziano" sul petto


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Il Calcio Illustrato del 30 aprile 1947, e ci sono due "grandi" della storia del nostro calcio:
Vittorio Pozzo e Valentino Mazzola




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