Moschino Giambattista

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Giambattista Moschino

Intervista a Giambattista Moschino

Centrocampista, nato a Vigevano (PV) il 28 marzo 1939 e ivi deceduto il 20 luglio 2019.

Cresciuto nelle giovanili del Novara esordisce in Serie A con i piemontesi nel corso della stagione 1955/56 ad appena 16 anni. E in due gare disputate realizza 2 goals. L'anno seguente, tra i cadetti, le presenze salgono a 13; nel 1957 diventa titolare e nel 1959 viene ceduto al Torino in Serie B dove gioca il primo anno 13 gare segnando 3 reti. La stagione 1960/61 la passa in tribuna causa un brutto infortunio. Nel novembre 1961 ritorna al Novara dove gioca 15 partite con 2 reti. Il ritorno al Torino che lo gira alla Lazio nel novembre 1962. Tra i cadetti con la maglia biancazzurra disputa un buon campionato giocando 20 partite e segnando 5 reti. Dalla stagione 1963/64 ritorna dal prestito ai granata dove disputa 7 stagioni ad altissimo livello tutte da titolare vincendo la Coppa Italia nella stagione 1967/68. Nella stagione 1970/71 si trasferisce al Verona dove disputa solo 7 gare siglando una rete. Ritorna alla Lazio nel 1971/72 voluto da Tommaso Maestrelli per dare esperienza al centrocampo.

Con i biancazzurri centra la promozione in A e viene confermato per la stagione seguente dove, però, viene impiegato solo per tre gare chiuso dal giovane Luciano Re Cecconi. In totale disputa 3 stagioni in totale in maglia biancoceleste. Con la Lazio colleziona 49 presenze e 6 reti in Campionato e 2 presenze nel Torneo Anglo-Italiano. E' stato giocatore prezioso dal punto di vista tattico. Intelligente e con un'ottima visione di gioco, sapeva dettare i tempi ai compagni ed ha sempre costituito un faro per la squadra, che si affidava a lui per attuare gli schemi di gioco più consoni all'andamento della partita. Fu uno dei protagonisti della promozione della Lazio dopo la prima retrocessione in serie B ed era stimatissimo dall'allenatore Juan Carlos Lorenzo. Alla fine della stagione 1972/73, dopo la "tournée" in USA, chiude con il calcio giocato e diventa l'allenatore della Reggina in serie B, fino alla diciannovesima giornata di campionato quando viene sostituito dall'allenatore in seconda Ettore Recagni. Nel 1975/76 è direttore sportivo dell'Albese in C.


Scrive L'informatore Vigevanese:

E' mancato questa mattina nella sua abitazione di corso Milano Giambattista Moschino, uno dei più grandi calciatori che Vigevano abbia mai avuto. Era nato il 28 marzo del 1939 ed aveva dunque 80 anni. Classico numero 10, Gianni nel 1955 aveva esordito giovanissimo in serie A nel Novara dove vi rimase quattro stagioni. Nel 1959 il passaggio al Torino, poi un breve ritorno al Novara, prima del passaggio alla Lazio. Nel 1963 di nuovo al Torino dove sotto la guida di Nereo Rocco divenne un titolare inamovibile fino al 1970. In quelle stagioni con i granata totalizzò 178 presenze segnando 14 reti, sollevando una Coppa Italia nel 1968. Sinistro naturale, sapeva dettare i tempi della mediana granata come pochi altri erano in grado di fare. Nereo Rocco lo definì "un cervello in mezzo al campo, un genio del football". Peccato per i continui disturbi al ginocchio e per la scarsa considerazione della Nazionale. Sono in molti a ritenere che per il suo talento avrebbe meritato traguardi maggiori. Dopo un anno al Verona, nel 1973 con la Lazio appese definitivamente gli scarpini al chiodo. Successivamente abbracciò anche la carriera di allenatore guidando la Reggiana e, come vice l'Alessandria, infine quella tecnico-dirigenziale, pure nella sua Vigevano. Per parecchi anni Moschino è stato istruttore federale presso il Centro Tecnico di Coverciano. Da tempo malato, Gianni lascia la moglie Carla e i due figli, Massimo e Nicoletta. Domani, domenica, alle 18.30 si terrà il S. Rosario presso la Sala del Commiato della Siof, mentre il funerale avrà luogo lunedì 22 luglio alle 9.30 alla chiesa di San Francesco.





Intervista a Moschino


Intervista a Moschino da www.laziopolis.it (novembre 2015) di Vincenzo Cerracchio e Gianfranco Lombardi


"Un portafortuna? Beh, due promozioni al primo colpo, uno scudetto scippato solo in extremis da quelli là... Sì, posso dire di aver dato qualcosa alla Lazio. Ma anche la Lazio mi ha dato tanto, gli anni passati a Roma restano un ricordo tenero. Torino e Lazio si assomigliano per quante ne hanno passate e le porto entrambe nel cuore".

► Seduto al bar nel salotto buono di Vigevano, una piazza Ducale che è una meraviglia del mondo, Giovanni Battista Moschino disvela un pezzo importante della sua gioventù. Oggi è un signore elegante, 76 anni ben portati, sciarpa e scoppoletta a difendersi dal crollo di temperatura che accompagna da queste parti il calar del sole novembrino. Due ore buone di chiacchiere, di ricordi che fluiscono, disordinati ma vividi. Tutto un calcio d'epoca, un album della Panini aperto sui giocatori della nostra adolescenza. Giambattista, o Gianni come lo abbreviano in famiglia, o Giovanni come lo chiamava Maestrelli, o Giobatta come lo scriveva Vladimiro Caminiti, il decano degli inviati di Tuttosport, se lo ricorderanno forse in pochi. Bisogna averci l'età, oltre che una consolidata lazialità. I suoi numeri sono scarni: 49 presenze e 6 reti in campionato. Divisi in due fasi, distanti tra loro ben otto anni.

"La prima volta arrivai in prestito dal Toro, nel mercato di novembre del '62. Facevo il servizio militare a Roma, alla caserma Macao, nella compagnia atleti, avevo 23 anni ma ero già sposato con una figlia piccola. Accettai la Lazio volentieri, era in B ma voleva risalire a tutti i costi, dopo essere stata derubata l'anno prima con quel gol di Seghedoni che sfondò la rete del Napoli e fu incredibilmente non visto dall'arbitro".

► Il presidente era Brivio?

"Sì, altrimenti detto "L'ultima raffica di Salò". La società era parecchio allo sbando ma al fascino di Roma non si resiste facilmente. In panchina era appena arrivato Juan Carlos Lorenzo".

► Un personaggio da raccontare...

"Gli aneddoti li conoscerete. Uno solo vale per tutti: partiamo dal ritiro di Ostia per andare allo stadio, l'autista non fa la solita strada, Lorenzo se ne accorge che siamo già quasi arrivati, ci fa tornare indietro per rifare la strada daccapo. Sconcerto generale e arrivo allo stadio, allora non c'era neanche la scorta, a un quarto d'ora dall'inizio della partita. Una scaramanzia impressionante. Però aggiungo subito una cosa: Lorenzo è stato uno dei grandi allenatori dell'epoca. Lo metto al livello di Rocco, di Edmondo Fabbri e di Maestrelli, i migliori che io abbia avuto. Ascoltava i resoconti del suo osservatore di fiducia e il giorno prima della partita ci descriveva esattamente la squadra avversaria: allora non c'era tv. E puntualmente la domenica scoprivamo che aveva avuto ragione".

► Il suo primo approccio con la Lazio?

"Loro cercavano in realtà Enrico Albrigi, anche lui scuola Toro, anche lui militare. Andammo a fare il provino e scelsero me. Lui finì al Verona. I casi della vita".

► Scusi l'osservazione: ma lei non era uno sconosciuto... il suo curriculum dice che aveva esordito in A a 16 anni.

"Sì esatto. Con la maglia del Novara. Mi avevano preso dopo avermi visto giocare in un torneo parrocchiale qui a Vigevano. Io avevo interrotto la scuola, già lavoravo in un calzaturificio. Finii subito in prima squadra. Poi il Torino, la nazionale juniores, il sogno infranto delle Olimpiadi del '60..."

► Sogno infranto?

"Pensate un po'. Allenamento della nazionale giovanile a San Siro. Io non dovevo giocare, non stavo bene. Tomeazzi ha problemi di stomaco. Rocco mi dice di entrare comunque, di mettermi lì a far numero, centravanti arretrato come usava una volta, alla Hidegkuti. Ma a 20 anni se ti danno la palla giusta in profondità, scatti eccome. Solo che davanti a me c'era un portiere ben solido sulle gambe. Io arrivavo in corsa, ginocchio contro ginocchio e il mio, il destro, fa patatrac. Rotti i crociati, i collaterali, tutto. Niente Olimpiadi con Rivera, Bulgarelli, Trapattoni, quei campioni per intenderci. Più sogno infranto di così!! E non basta..."

► Che altro?

"Non mi operano. Ai tempi non usava. Un anno di stop completo, fisioterapia con la gamba a penzoloni. Il miracolo è che sia tornato a giocare. Ma è come se avessi giocato per oltre dieci anni ancora con una gamba sola..."

► Oggi impensabile... Da Medioevo calcistico.

"Arrivavo a Tor di Quinto mezz'ora prima dell'allenamento. Mi levavo la fasciatura stretta, senza farmi vedere, e andavo in campo. Temevo che i compagni si lamentassero, che dicessero in giro che ero rotto. Lorenzo lo sapeva ma mi permetteva di fare il mio gioco. Stavo davanti alla difesa e facevo lanci lunghi, grazie a un sinistro molto preciso. Quando dovevo contrastare non andavo mai allo scontro, accompagnavo l'avversario, magari rubavo palla sul tempo. Ma certo non ce la facevo ad arrivare facilmente anche vicino alla porta. Eppure segnai cinque reti in venti partite. La prima al Cagliari, era un 30 dicembre e allora non c'erano le vacanze di Natale".

► Eppure si parla tanto di pillolette strane, di aiutini dopanti in quel periodo...

"Ci davano il Micoren, questo sì. I massaggiatori dicevano che aiutava a sopportare la fatica. Ma per il mio ginocchio, posso assicurarlo, solo applicazioni di fango. Miracoloso non direi..."

► I suoi rapporti coi tifosi?

"Fantastici. Sempre gentili. Io avevo con me mia moglie e una bambina piccola ma tutti si facevano in quattro per farci sentire a casa. Ricordo Arnaldo Bartomelori, aveva un garage al Fleming, è diventato un amico vero, ci ha fatto scoprire l'accoglienza, il calore di questa città. Io venivo dal Nord, insomma gente più fredda... Ricordo che giocavo con la maglia numero 11, la 10 la portava Morrone che invece era la vera punta insieme a Bernasconi. Allora qualche tifoso dalla Tevere mi gridava: "Undici, stai largo...!" Perché erano convinti che dovessi io fare l'ala, mentre ero il regista ed ero portato ad accentrarmi. Ma vaglielo a spiegare..."

► Comunque a fine stagione se ne tornò al Torino.

"La verità è che Lorenzo voleva tenermi a tutti i costi. A fine campionato facemmo un'amichevole per festeggiare la promozione contro il Milan di Rocco che aveva vinto lo scudetto. Lui non mi fece giocare, perché sapeva che Rocco sarebbe andato ad allenare il Torino e temeva che mi avrebbe rivoluto con lui. Voleva nascondermi, farmi dimenticare. Ma Rocco a fine partita mi disse: "Uè mona, quello crede de fregarme a me. Mi te cunusce ben, tu torni in granata, digli di star tranquilo..." Così tornai alle origini e trovai la Lazio da nemico, le feci anche gol, magari su rigore. Lorenzo mi faceva marcare da Mari, un tipetto tosto che pensava solo a entrarmi sul ginocchio... Guarda che caso!"

► Da lì otto anni di alto livello.

"Anche se il Toro vinse pochissimo rispetto alla squadra che eravamo. Appena una Coppa Italia. E una tragedia immane, quella di Meroni. Con lui avremmo dominato per diversi anni. La sua morte fu per una serie incredibile di casualità".

► Investito in pieno centro...

"Era l'ottobre del '67. Dopo la partita normalmente si restava in ritiro. Avevamo battuto la Samp 4-2 e chiedemmo a Fabbri, l'allenatore, il permesso di andare a casa come premio per quella volta. Dopo aver visto il secondo tempo di una partita in tv, come usava la domenica sera. Meroni andò via con Poletti, il nostro terzino. Una volta a casa si accorsero di non avere le chiavi, la moglie era fuori con le amiche, non lo aspettava così presto. Dunque attraversarono Corso Re Umberto per andare in un bar a telefonare. Le macchine non andavano particolarmente veloci: Poletti partì per attraversare, fece un passo avanti ma poi si tirò indietro perché si accorse che non c'era margine, Meroni era coperto da lui, fece quel passo in più e fu preso sulla gamba. Ma sarebbe finita così, con uno spavento, se non fosse stato sbalzato sull'altra corsia dove non c'era traffico e le auto andavano più veloci. Stavolta fu travolto, trascinato per 50 metri e morì in serata in ospedale. Al funerale c'era tutta Torino..."

► Un vero choc...

"Perdere così un compagno non è un dolore spiegabile. Andammo avanti a fatica, io sempre con questo ginocchio martoriato. Come capisco Baggio... che li aveva fradici tutti e due. Comunque nel '70 mi volle il Verona a tutti i costi. Sarà stato il clima o non so cos'altro, il ginocchio era sempre infiammato, giocai pochissimo e decisi di smettere. Volevano cedermi alla Sampdoria per sostituire Suarez ma non ce la facevo proprio più e me ne tornai qui a Vigevano pensando di aver chiuso col calcio".

► Invece tornò la Lazio...

"Vennero insieme Sbardella e Maestrelli per convincermi. La Lazio era di nuovo in B. Cercavano un regista, uno di esperienza. Il bello è che il mercato di riparazione era a novembre. Eravamo a ottobre e io dovevo quindi riprendere ad allenarmi. Ma non potevo farlo né a Roma né a Torino, perché altrimenti i giornali avrebbero messo pressione a quelli che giocavano, visto che anche il Toro all'epoca non brillava. Comunque sia, alla fine avrei accettato solo la Lazio, speravo nel miracolo del clima e poi i ricordi erano felici. Giocai 26 partite e feci un solo gol ma diedi comunque un contributo decente alla seconda promozione. Così fui confermato per onor di firma anche l'anno successivo, quello dello scudetto rubato del '73".

► Arriviamo dunque a Chinaglia, Wilson, i clan, gli spogliatoi divisi, perfino le pistole...

"Tutto vero... Però prima viene il gruppo: fantastico, unico. In campo un monoblocco di granito".

► E Moschino da che parte stava?

"Da nessuna. Io ero da solo".

► Una specie di spettatore-arbitro?

"Maestrelli mi aveva dato la camera singola. Un privilegio assoluto. La verità è che ero già ormai quasi un consulente. Maestrelli ebbe momenti difficili, specie all'inizio, ma si confrontava volentieri con me. Poi se poteva mi risparmiava anche la panchina. Il ginocchio scricchiolava troppo, non mi dava tregua. Fu lui a consigliarmi ad andare l'anno dopo, finita la carriera, ad allenare la Reggina".

► Ma lei giocava il venerdì nella squadra degli attaccanti, quindi con Chinaglia...

"Certo. E devo dire che con Giorgio il rapporto era ottimo. Anche perché inizialmente lui non è che legasse molto con Frustalupi, anche sul campo intendo. Io sapevo come lanciarlo, dove voleva il pallone. Giorgione era un pezzo di pane, bastava non farlo arrabbiare. Ma tutti i compagni mi hanno sempre rispettato, a 34 anni e con questi capelli biondi e radi mi consideravano un anziano. E io avevo famiglia, non partecipavo per niente alla loro vita privata. Ero una sorta di entità terza. Non avevo un amico in particolare ma di sicuro nessun nemico".

► Un aneddoto?

"Come dicevo, ero tutto famiglia e pallone. Un pomeriggio andai a Tor di Quinto con mia figlia. Feci l'allenamento, ripresi la macchina, arrivai a casa, stavo per entrare nel portone quando sentii una sgommata dietro le spalle. Era Luciano Re Cecconi che mi riportava mia figlia: "Te la sei scordata al campo", mi disse ridendo. A me prese un colpo. Non ero decisamente abituato a mischiare il lavoro con i figli. Ma lui sapeva dove trovarmi e non si era per nulla preoccupato".

► E gli altri compagni?

"Noi scherzavamo a volte con Nanni, che non era uno che amasse i contrasti, insomma badava a non farsi male. Anche perché i suoi gol erano spesso decisivi, andava preservato. Ma in allenamento anche lui faceva delle entrate da paura. E io pensavo: ma per questi è davvero più importante la partitella della partita...? Incredibile ma era così... E quando penso a Maestrelli mi dico: davvero solo lui poteva domare quel gruppo. Una squadra più difficile di quella Lazio è impossibile da immaginare".

► Ricordi di campo?

"Uno bello. La vittoria per 2-1 ad aprile sul Milan che sembrò lanciarci verso il tricolore. Io entrai al posto di Re Cecconi per tenere il risultato con il palleggio e il possesso palla. Ricordo un Olimpico da apoteosi e le feroci polemiche che seguirono a un gol annullato a Chiarugi. Uno bruttissimo. La delusione di Napoli, con quella sconfitta-beffa all'ultimo minuto al San Paolo mentre la Roma lasciava vincere la Juventus".

Derby?

"Quello di Roma mi manca".

► Giocatore preferito?

"Graduatoria impossibile. Voto per ammirazione il sinistro di Mariolino Corso".

► Guardandosi indietro...

"Senza quell'infortunio sarei andato in nazionale, già c'ero in realtà. Me la sarei battuta magari con De Sisti, come tipo di gioco. Ma non ho rimpianti per allora: c'erano centrocampisti fortissimi. Mi farebbe rabbia infortunarmi oggi, perché il livello tecnico è sceso molto e avrei pochi rivali. Anche per via di stranieri improponibili. Che ai tempi nostri non avrebbero mai avuto la minima chance".

► Moschino dopo la Lazio?

"Qualche mese da allenatore di una Reggina che non aveva né presidente né dirigenti né medico sociale: solo il massaggiatore. A Natale scappai via. Poi istruttore federale di tecnica calcistica, una parentesi come consulente di Rocca per le nazionali giovanili. Ricordo un Cassano giovanissimo che diceva sempre sì e faceva esattamente il contrario..."

► Moschino ora?

"Sono un nonno strafelice ma non ho nipoti da lanciare nel pallone, preferiscono il tennis. Il cruccio è che quasi non cammino più. Mi dicono che dovrei operarmi al maledetto ginocchio: ora pare che si possa, magari una bella protesi d'argento... Calcio zero, lo dico chiaramente. A volte mi viene noia anche a vedere in tv Bayern-Real Madrid. Mi fa piacere se vincono Torino e Lazio, questo sì. Anche Novara e Verona, ce l'ho messa tutta in qualsiasi squadra abbia giocato. Però, se avessi la possibilità, una partitella a pallone me la farei ancora. E' il calcio giocato l'unico che abbia veramente amato..."



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