Mihajlović Siniša

Da LazioWiki.
Siniša Mihajlović
Foto Getty Images

Difensore serbo, nato a Vukovar (Croazia) il 20 febbraio 1969 e deceduto a Roma il 16 dicembre 2022.

Milita nel Vojvodina, nella Stella Rossa Belgrado (con cui vince una storica Coppa dei Campioni), poi nella Roma AS per due stagioni. Viene acquistato nel 1998 dalla Sampdoria e disputa successivamente 6 stagioni in maglia biancoceleste. Con la Lazio colleziona 126 presenze e 20 reti in Campionato. Nel 2004 passa all'Internazionale FC dove chiude la carriera da calciatore. Campione d'Italia nella stagione 1999/2000, ha segnato il primo storico gol della Lazio in Coppa dei Campioni - Champions League. Ottimo difensore - dopo gli esordi da ala, di qui il numero 11 sulle spalle, poi conservato per il resto della carriera - Sinisa è stato un calciatore dotato di grande visione di gioco che sapeva unire a un marcato agonismo, copriva bene gli spazi e grazie ad una tecnica sopraffina e a un calcio preciso e lungo sapeva ribaltare velocemente il versante di gioco. Mancino naturale, è stato uno dei migliori specialisti di tutti i tempi nel tirare i calci di punizione. Sapeva, infatti, unire la potenza al colpo d'effetto che conferiva alla palla traiettorie imprevedibili.

Terminata la carriera di calciatore, diviene allenatore in seconda dell'Inter di Roberto Mancini. Dal novembre 2008 allena il Bologna, ma viene esonerato nell'aprile 2009. A dicembre 2009 viene assunto dal Catania ma si dimette alla fine del campionato e va ad allenare la Fiorentina nella stagione 2010/11. Confermato nella stagione seguente, il 7 novembre 2011 viene tuttavia esonerato. Dal 21 maggio 2012 diviene Commissario Tecnico della Nazionale Serba. Il 21 novembre 2013 assume la guida tecnica della Sampdoria che nel frattempo ha esonerato il precedente allenatore Delio Rossi. L'esordio sulla panchina blucerchiata avviene proprio nella gara disputata dai liguri contro la Lazio. Nella stagione 2015/16 passa sulla panchina del Milan AC dove viene esonerato a poche giornate dalla fine dopo aver conquistato l'accesso alla finale della Coppa Italia. Diventa poi allenatore del Torino AC per la stagione 2016/17 e viene confermato per la stagione successiva 2017/18 ma è esonerato a gennaio 2018. A giugno 2018 assume la carica di tecnico dello Sporting Lisbona (Portogallo), ma dopo nove giorni viene sollevato dall'incarico.

A gennaio 2019 viene ingaggiato del Bologna, in lotta per la retrocessione, al posto di Filippo Inzaghi e centra l'obiettivo della salvezza con una giornata d’anticipo pareggiando 3-3 contro la Lazio. Il 13 luglio 2019 annuncia in conferenza stampa di abbandonare momentaneamente la guida della compagine felsinea per sottoporsi a cure mediche, a causa di una forma acuta di leucemia. A tre anni e mezzo dal suo incarico come allenatore degli emiliani, Sinisa - che combatteva ancora contro una recidiva ripresentatasi nel corso della primavera del 2022 - il 6 settembre viene esonerato dal Bologna a causa di un deludente avvio di campionato della squadra rossoblù. Nel novembre 2022 un'ulteriore recidiva lo costringe a pesanti cure alla Clinica Paideia di Roma. Nonostante tutti i tentativi dei medici e la sua forza d'animo, spira nella tarda mattinata del 16 dicembre 2022 nella struttura sanitaria di Roma nord.


La prima pagina del Corriere dello Sport del 16 dicembre 2022
Il ricordo di Sinisa Mihajlovic sulla prima pagina de Il Messaggero del 16 dicembre 2022
La notizia della scomparsa di Sinisa Mihajlovic su Il Tempo del 16 dicembre 2022
La prima pagina della Gazzetta dello Sport del 16 dicembre 2022

Vasta eco e profondo dolore hanno caratterizzato la notizia della prematura scomparsa di Sinisa Mihajlovic nella giornata del 16 dicembre 2022. Gli articoli seguenti, tratti da vari organi di stampa, ci aiutano a ricordare e ci raccontano ulteriormente la figura del grande Campione biancoceleste.

• Dal Corriere dello Sport del 17 dicembre 2022:

Sinisa così fa troppo male. È morto ieri, a 53 anni, sconfitto dalla malattia. Si è battuto a lungo per ogni piccolo momento di felicità, sostenuto dal grande amore per il calcio. L’omaggio silenzioso dei tifosi, il dolore degli amici del figlio. La famiglia: "Morte ingiusta e prematura". A luglio del 2019 aveva annunciato di avere la leucemia.

Roberto Mancini se ne va dalla clinica Paideia alle sette e mezzo di sera, da solo, guidando una 500 Abarth dopo essere rimasto un bel pezzo appoggiato a una parete, a vegliare l’amico scomparso. Sinisa Mihajlovic ha lasciato tutti, i figli, la moglie, la madre, il fratello di campo, all’inizio del pomeriggio. Alle 15.08 lo annuncia l’agenzia Ansa con un comunicato della famiglia: "Una morte ingiusta e prematura". A 53 anni è certamente prematura, e ingiusta come tutte le morti del mondo. Soprattutto, una morte testarda: ha inseguito Mihajlovic fino a sfinirlo, facendogli credere per un po’ di averla seminata, raggiungendolo quando era distratto e probabilmente felice. Leucemia mieloide acuta, sta scritto sulle scartoffie che i medici portano avanti e indietro lungo i corridoi della clinica romana. Siamo foglie al vento e fogli di carta. Mihajlovic aveva conosciuto la malattia a metà del 2019, se n’era liberato grazie a un trapianto di midollo osseo ricevuto da un donatore statunitense, era tornato a dialogarci qualche tempo fa. Diciamo pure a combatterci, anche se la storia del guerriero che non si arrende fa più settimo sigillo che storia reale di un uomo concreto qual era Sinisa. Che infatti poco la sopportava. Combatteva, ma per conquistare quel passo in più di terreno quotidiano: la partita da seguire in panchina, l’allenamento personale da portare avanti, un chilometro da aggiungere piuttosto che uno da sottrarre.

La serata a parlare in pubblico di calcio e di ciò su cui il calcio secondo lui si fondava, intelligenza, qualità e, in questo caso sì, voglia di vincere contro qualsiasi speranza. Per la lotta, lasciava fare alla medicina. Meno di tre settimane fa era alla presentazione di un libro di Zdenek Zeman, con il sorriso di chi si sente bene e al posto giusto. Domenica scorsa per un improvviso aggravamento era dovuto tornare alla Paideia, la clinica dove si era sempre curato sin dall’inizio del periodo alla Lazio. Stava vicino a casa sua, poi si è spostata nella sede attuale. Un candido poliedro regolare spezzato da cornicioni orizzontali, con i muri interni rivestiti di materiale azzurro. All’esterno, pannelli luminosi attraversati da nevicate di luce ricordano che è quasi Natale. Dentro, le stanze somigliano a camere d’albergo spaziose e comode. Ma sempre stanze d’ospedale sono. Odorano di medicinali e disinfettante. Mihajlovic era nella numero 326, al terzo piano. Ieri riposava, infine, con il viso segnato dall’infezione che lo aveva colpito, proprio nel momento in cui le sue difese non reagivano. Hanno visto i figli seduti in terra intorno al letto, la moglie Arianna accanto a lui, la madre sul divano del salottino attiguo alla camera. Un dolore intenso, composto ma non represso, non distante. E Mancini appoggiato alla parete.

Pochi amici della vicenda recente di Mihajlovic - come Massimo Ferrero, tuttora proprietario della Sampdoria, e dirigenti della Lazio di una volta - si sono avvicinati alla salma, mentre in tanti erano andati a salutare l’amico nei giorni scorsi, quelli della lotta finale per un respiro, per qualche parola. E in tanti torneranno oggi se, come sembra, la camera ardente verrà allestita nella stessa clinica in forma privata. Per domani è allo studio un omaggio pubblico in Campidoglio e il funerale è programmato per lunedì alle 11 nella basilica di Santa Maria degli Angeli, in Piazza della Repubblica a Roma. C’erano i tifosi, però. Qualcuno. Intimidito, discreto, rispettoso di un dolore che là, sotto il poliedro candido, si poteva soltanto intuire. A tarda sera in tre hanno tentato di portare una maglia della Lazio alla famiglia. Non li hanno lasciati entrare. Se ne sono andati senza protestare. Non erano lì per sé stessi, bensì per rendere omaggio alla memoria di un giocatore che li aveva glorificati e di un allenatore che ha tentato di glorificare altri ma sempre rivendicando, con pacato orgoglio, la sua specificità: non ho nulla contro la Roma AS e ovviamente contro nessuno, diceva, però io mi sento profondamente laziale. E diceva anche: nella vita serve coraggio e bisogna avere personalità.

Per esempio, Guido De Angelis racconta di quando Mihajlovic e Stankovic fuggivano in macchina dai bombardamenti in Serbia e Stankovic piangeva e Sinisa gridava: che cavolo piangi? E casualmente tutto finì trasmesso direttamente in radio. Per questo e per il resto, Mihajlovic era un personaggio verticale e trasversale. Divisivo nella misura in cui voleva esserlo, per pura onestà sentimentale e intellettuale. Da pomeriggio a notte, immerso in un’umidità sempre più cattiva, ha stazionato sul marciapiede opposto a quello dell’ingresso della Paideia un gruppetto di ragazzi. Guardavano verso la finestra della camera di Sinisa, da cui di tanto in tanto qualcuno ricambiava gli sguardi e i gesti. Tifosi anche loro, certo, ma senza bandiera. I più della Lazio, qualcuno della Roma AS. Tifosi per caso. Erano gli amici di Nicholas, uno dei figli lasciati da Mihajlovic. Non aspettavano alcuna resurrezione, neppure concettuale, di un idolo calcistico che aveva completato il suo percorso terreno, aveva vinto e perso, gridato e rotto serrande nei momenti di insofferenza, consolato e sostenuto in quelli di pedagogia, e Mihajlovic ne viveva perché sentiva di avere visto molto e di averne di cose da insegnare. No, quei ragazzi aspettavano soltanto che scendesse Nicholas, per incoraggiarsi insieme ad andare avanti. Nel frattempo, lo spiazzo davanti alla clinica si era svuotato. Sull’asfalto umido si riflettevano le scritte dei pannelli natalizi e la neve di luce continuava a cadere.


► "Ho perso un fratello". "Io e Mihajlovic abbiamo condiviso quasi trent’anni di vita insieme: lo portai alla Samp con un anno di ritardo, perché la Roma AS riuscì ad anticiparci. Grazie a lui ho fatto il gol più bello della mia carriera".

Non trova le parole, perché è tutto così difficile. Lo aveva capito da giorni che avrebbe perso il suo amico del cuore, ma poi è successo e anche se ti sei preparato non sai come affrontare il dolore e la nuova vita senza Sinisa. "Pochi giorni fa, prima che lo ricoverassero, avevamo visto insieme una partita del Mondiale. Ridendo e scherzando, stava abbastanza bene, era uno di quei momenti in cui non pensi a quello che stai affrontando e vivi come se nulla fosse". Roberto Mancini è sconvolto, non si era allontanato da Roma per stare accanto ad Arianna e ai suoi figli. "Sono cresciuti con i miei, abbiamo percorso tutte le tappe della nostra vita insieme, almeno quelle più importanti. Per me era un fratello, sì ho perso un fratello perché siamo andati oltre l’amicizia. Inevitabile quando condividi tante emozioni l’uno accanto all’altro". Niente sarà come prima. Tanti anni fa, Mancini pianse per la morte di Paolo Mantovani, un presidente-padre. Era il 1993 e Roberto con la Samp aveva vinto uno scudetto e perso una finale di Coppa dei Campioni contro il Barcelona a Wembley scrivendo la storia blucerchiata. L’anno successivo alla scomparsa del padrone della Samp, arrivò a Genova proprio Mihajlovic e non per caso. Lo rivela proprio l’attuale ct della nazionale italiana, che iniziò a fare mercato per i suoi club molto prima di arrivare a Roma e di collaborare con Sergio Cragnotti.

Decisivo, nel ‘99, quel consiglio al finanziere della Lazio: "Se deve cedere Vieri a Moratti, prenda Simeone perché ci farà vincere lo scudetto". Anche a Genova, molto più giovane, ebbe la vista lunga e oggi il ricordo assume un valore emotivo diverso. "Vidi Mihajlovic giocare con la Stella Rossa Belgrado l’anno in cui vinse proprio la Coppa dei Campioni, consigliai alla Samp di acquistarlo subito. Si trattava di un giovane di vent’anni che giocava come un veterano e in più aveva un sinistro da favola. La Roma AS fu più brava di noi e ce lo portò via, ma due anni dopo finalmente riuscimmo a prenderlo. Da quel momento è iniziata la nostra grande avventura". Quasi trent’anni insieme, anche se le rispettive carriere di allenatori li aveva separati dal punto di vista logistico. Mihajlovic aveva cominciato al fianco di Mancini all’Internazionale FC, come vice, ma aveva una personalità prorompente e un’ambizione pari a quella da giocatore per lavorare in coppia. Da solo iniziò nel novembre del 2008 a Bologna, guarda caso la società e la città in cui Roberto aveva iniziato a giocare. "Era inevitabile che le strade si dividessero, ma insieme abbiamo condiviso tanti anni con la Samp, con la Lazio e con l’Internazionale FC. Abbiamo vinto molto, quasi tutto, in un percorso condiviso. Il nostro non era un clan, era un grande gruppo di amici. Difficile catalogare i ricordi, come sarebbe mai possibile? Ce ne sono a centinaia, difficile anche fare una scelta".

Nessun rimpianto, se non quello di averlo perso per sempre. "Ma solo dal punto di vista fisico, perché Sinisa è sempre stato accanto a me e lo sarà anche adesso che non c’è più". C’è un lampo negli occhi di Mancini in una giornata così triste e devastante. Un pensiero improvviso, come se volesse allontanare il dolore o il pensiero che Mihajlovic non c’è più. "Sinisa mi ha fatto fare il gol più bello della mia carriera, come potrei avere dei rimorsi? Di tacco ne avevo fatti tanti altri, ma quello resta unico". Era il 17 gennaio del 1999, Parma-Lazio al Tardini: angolo di Sinisa, magia di Roberto, palla all’incrocio dei pali e abbraccione con Bobo Vieri, incredulo di fronte a tanta bellezza. "Oggi posso dire che è il più bello davvero" sussurra il ct che rende onore all’amico appena perso. C’era anche il gol di Napoli, al San Paolo, con la maglia della Samp ma l’emozione è diversa. "Non è giusto che una malattia così atroce si porti via un ragazzo di 53 anni. Sinisa ha lottato come un leone fino all’ultimo istante, come faceva in campo. Lo ricorderò per sempre così, tosto e coraggioso, le qualità per cui l’ho sempre voluto accanto a me".


► Sinisa e Roby per sempre. Insieme cambiarono la storia della Lazio.

Se n’è andato via proprio come aveva vissuto, dal primo all’ultimo giorno, lottando contro tutto e contro tutti e sempre senza paura. Sì, perché Sinisa non ha mai avuto paura di niente, non ha avuto paura delle bombe a Belgrado e di confessare che aveva dato del negro a Vieira, non ha avuto paura di una curva che lo sfidava e di una malattia che non lo aveva mai messo in ginocchio, fino a qualche ora fa. Stavolta ha dovuto affrontare un nemico che non si poteva schiacciare, è rimasto in trincea e lo ha combattuto a viso aperto, come faceva con gli avversari più veloci di lui, che Eriksson trasformò in un difensore capace di intuire prima che cosa avrebbe fatto il suo avversario. Non era rapido? E chissenefrega, spesso lo anticipava o addirittura lo spaventava, perché era un duro e non tutti avevano il coraggio di affrontarlo. Della Lazio era diventato un simbolo, un’icona, un’immagine vincente, anche se poi avrebbe scelto l’Internazionale FC per chiudere una carriera ricca di successi: fu invitato ad andarsene da Roma e il desiderio di seguire l’amico del cuore, Roby come lo chiamava lui, è stato più forte dell’amore per una squadra che gli era entrata nel cuore. Ogni volta che Mihajlovic è tornato a Roma, è stato accolto come un grande amico, mai come un nemico. Sotto la Nord, a mani giunte, per ringraziare la sua gente che oggi lo ricorda come Maestrelli, come Chinaglia, come Bob Lovati e Re Cecconi, come Wilson, Pulici e Governato, come tutti i campioni scomparsi con la maglia biancoceleste sulla pelle.

Sinisa era arrivato nell’estate del ‘98, qualche mese dopo il crollo della Lazio a Parigi, nella finalissima di Coppa UEFA contro l’Internazionale FC di Ronaldo. Fu proprio Mancini a suggerire prima a Eriksson e poi a Cragnotti l’acquisto del difensore della Samp, ancora prima di imporre l’arrivo di Simeone nell’operazione Vieri. "Non siamo cattivi, non abbiamo la mentalità per vincere, una Coppa Italia non può bastare: presidente, porti Sinisa a Roma". Mihajlovic era stato un terzino della Roma AS, ma nessuno osò ricordare il suo passato perché Sinisa era già proiettato nel futuro. Aveva un carisma che ti conquistava. Sbruffone, ma dolcissimo. Cattivo, ma onesto. Coraggioso, ma anche antipatico: se non entravi in sintonia con lui, non potevi capire le sue provocazioni, i suoi messaggi, le sue pretese ma anche le sue concessioni. Sinisa era tutto e il contrario di tutto, nel bene e nel male. Era talmente testardo nella difesa delle proprie idee, da interrompere per oltre un anno anche l’amicizia con Mancini, che invece era e sarà il suo amico per sempre. Non si erano capiti: Sinisa aggrappato come sempre alla sua Arianna, Roberto lontano da Federica per una dolorosa scelta di vita. Si sono ritrovati quando è comparsa la malattia, ma già avevamo intuito tutti che si sarebbero riabbracciati, come a Genova, come a Roma e come a Milano. Sempre l’uno accanto all’altro: Mihajlovic, in campo, per Roby era diventato un nuovo Vialli perché per vincere non bastava il talento, serviva qualcosa che non tutti i giocatori possiedono.

Proprio per questo Mancini lo aveva consigliato alla Lazio, dove Sinisa diventò un comandante. C’era il clan dei sampdoriani e c’era il clan degli argentini, nella squadra con cui Mihajlovic ha vinto uno scudetto, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea, 2 Coppe Italia e due Supercoppe scrivendo pagine indimenticabili della storia biancoceleste: ricordava la Lazio del ‘74 per gli umori e per gli amori. C’erano moltissimi campioni di cui potevano innamorarsi i bambini che andavano accompagnati dai genitori allo stadio. Di Padre in Figlio per sempre, ricordò Pino Wilson nella storica notte in cui riempì lo stadio Olimpico riunendo generazioni di laziali vincenti e perdenti: e non sapete quanti amavano, tra quei bambini, uno come Sinisa, che quando sorrideva senza sfidarti diventava tenero e irresistibile. Ti poteva regalare una maglia all’improvviso (rigorosamente la numero 11), oppure incazzarsi perché non credevi al suo pensiero. Nello stadio del Chelsea, lo Stamford Bridge, Mihajlovic segnò un gol storico, regalando alla Lazio una vittoria indelebile; il 13 dicembre del 1998 realizzò tre gol consecutivi su punizione contro la sua vecchia Samp, conquistando un record storico e forse imbattibile in eterno. Ma Sinisa ha anche calpestato Mutu e offeso Vieira, ha minacciato Nedved e consigliato a Boskov di lanciare Francesco Totti, con cui si sarebbe ritrovato nella Questura di San Vitale nella notte in cui il derby del 2004 venne sospeso per questioni di ordine pubblico: erano i capitani della Lazio e della Roma AS e dovevano rivelare i contenuti dei loro colloqui con gli ultrà in mezzo al campo. Mihajlovic era un angelo e anche un diavolo, ma non abbastanza cattivo da battere l’ultimo nemico, talmente infame da non sfidarlo pubblicamente: altrimenti avrebbe vinto Sinisa.


"Per sempre uno di noi". La promessa di Conceiçao: "Veglieremo sulla tua famiglia". Couto e Fiore: "Ti saremo sempre grati". Eriksson: "Quel sinistro d’oro". Lotito: "Esemplare".

Si sentono solo silenzi che non riescono a parlarsi davanti alla clinica Paideia, sotto la camera 326 che custodisce le spoglie di Sinisa, l’ultimo leone. Roberto Mancini è accanto a lui da ore, fermo in un’immagine d’infinito. Gli altri vecchi amici di sempre ci sono senza esserci. Parlano i ricordi, echi di parole arrivano da tutta Europa mentre la pioggia a singhiozzo viene giù da un cielo confuso. Alessandro Nesta chiama Sinisa "mister", erano una coppia di amici e di centrali inimitabili: "Sei stato un guerriero. Un esempio per tutti noi e soprattutto per me". Dal Portogallo chiamano per conto di Couto e Conceiçao, chiedono informazioni su quando ci saranno i funerali: "Fernando e Sergio sono pronti a partire". Couto dice solo "grazie di tutto amico mio". Conceiçao, su Instagram, posta uno scatto con Sinisa, hanno le maglie della Lazio: "I veri trofei che conservo sono momenti come quelli che abbiamo vissuto insieme. Hai una famiglia in Portogallo che veglia sulla tua". Frammenti di vita arrivano addosso a tutti gli ex compagni di Sinisa. Anche Stefano Fiore ringrazia: "Sei sempre stato un esempio da seguire".

Lo scudetto. Sven Goran Eriksson ha la voce rotta, chiese Mihajlovic a Cragnotti per vincere lo scudetto e scudetto fu nel 2000 anche grazie alle sue "bombe": "Per me era molto più di un giocatore. E’ stato importantissimo per quei successi. Le punizioni, i rigori. Uno spirito enorme. E’ stato uno dei migliori al mondo, il suo sinistro era d’oro". Negli effetti ed affetti speciali della Lazio di Sinisa vivono ancora oggi i laziali. Sergio Cragnotti era il presidente di quei miti: "Sinisa ha dato un grande contributo ai trionfi della Lazio trascinando tutti con coraggio". A Cragnotti si è unito Claudio Lotito, il presidente della Lazio: "Di questo combattente dal grande cuore resterà una traccia indelebile nella storia della Lazio. Lo ricorderemo come merita, con l’abbraccio infinito della sua squadra e della sua gente". Il diesse Tare su Instagram: "Riposa in pace. Grande persona e grande campione". Tutta la Lazio è in lutto. Maurizio Sarri, appena terminata l’amichevole contro l’Hatayspor, ha rivolto un pensiero a Sinisa: "Ho i miei ricordi e vorrei mantenerli vivi. Un uomo di questo spessore ne lascia a tutti". Alessio Romagnoli è stato lanciato da Sinisa, piange: "Mi ha voluto alla Sampdoria e al Milan AC. Era una delle poche persone vere che ho conosciuto in questo mondo". Ciro Immobile ha vissuto la sofferenza degli ultimi giorni: "Umanamente è stata una delle persone con cui mi sono trovato di più a parlare. Ci incontravamo nella clinica dove andavo a fare terapie. L’avevo visto sofferente, mi faceva male al cuore". La Lazio, il Bologna. Riccardo Orsolini ha aperto il suo cuore: "Mi hai cresciuto sia come uomo che come calciatore, te ne sarò per sempre grato". Joey Saputo, presidente del Bologna, l’aveva esonerato a settembre, oggi lo piange: "Perdiamo un uomo straordinario, sapeva alternare i suoi celeberrimi atteggiamenti burberi ad una dolcezza fuori dal comune". Il cordoglio di Gabriella Bascelli, presidente della Fondazione S.S. Lazio 1900: "Immenso dolore".

Gli altri omaggi. Comunicati e messaggi s’alternano alle presenze in Paideia. Arriva Massimo Ferrero, ex presidente di Sinisa alla Samp: "Un super uomo. Cosa posso dirvi? Che non meritava l’esonero a Bologna? Non lo meritava". E scappa via in lacrime. S’intravede Vincenzo Cantatore, ex pugile, ex collaboratore di Sinisa a Bologna. Nella stanza al terzo piano c’è Maurizio Manzini, storico team manager della Lazio, ambasciatore della storia: "La sua grandezza, i consigli che sapeva dare". Il cordoglio di Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli: "Se ne va troppo presto un grande uomo. Un allenatore che in passato avevo pensato di portare a Napoli...". Fabio Capello e i derby più accesi: "Non si piegava, voleva rispetto e dava rispetto". La dedica di Gianni Morandi: "Passare tanti momenti insieme è stato un grande regalo". "Ciao Sinisa", il saluto di Vasco Rossi. Oggi siamo più soli, Vasco.


► La sua squadra più forte. Con Arianna un colpo di fulmine durante una trasferta a Roma. Hanno combattuto insieme. La moglie, i figli e la nipotina: tutti sempre al suo fianco.

"Ci siamo innamorati subito, ci siamo guardati e non ci siamo staccati più". Se la forza dell’amore bastasse a cancellare il male e il dolore, dovremmo prendere la storia tra Sinisa Mihajlovic e Arianna Rapaccioni e diffonderla in questo benedetto mondo. C’è davvero tanto amore dietro questo dolore. Più forte che mai in queste ultime ore, così difficili e strazianti. Arianna non si è mai tirata indietro, è sempre rimasta al fianco di Sinisa. Lo aveva fatto sempre, nella buona e nella cattiva sorte. Il giorno che Mihajlovic aveva annunciato al mondo la sua malattia in una conferenza stampa: seduta in prima fila, a dargli la forza, c’era lei. E così aveva fatto dopo: andando in pellegrinaggio fino a San Luca per pregare; entrando e uscendo dall’ospedale Sant’Orsola; restando sveglia nelle lunghe notti di apprensione. E quando era stato dimesso la prima volta dall’ospedale di Bologna, a novembre 2019, dopo il terzo ciclo di cure, un’immagine era entrata dentro di noi: la foto che Arianna aveva postato su Instagram. Loro due, abbracciati. "Più bella cosa non c’è", c’era scritto.

Tutti. È difficile usare metafore nei momenti bui, ma certo la famiglia per Mihajlovic è stata davvero la squadra più forte. Arianna, romana, la mamma dei loro cinque figli: Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas. A questi si aggiunge anche Marko, nato da una precedente relazione. Forse è vero che Sinisa ha avuto molti più figli e nipoti di quanti possiamo immaginarne; i suoi giocatori, che erano diventati il suo rifugio negli ultimi tempi. Soprattutto quelli che avevano vissuto l’agonia della malattia, e che avevano pianto con lui, che lo avevano visto sofferente. E così, dopo l’annuncio della leucemia, la sua casa era diventata l’Italia, poi il mondo: una famiglia allargata. Lui ha sempre ringraziato, ma è della sua famiglia, quella grande ma ristretta, che Mihajlovic si è sempre preoccupato. A tavola sempre tutti insieme, stessi posti, niente cellulare. "Sono un padre affettuoso, perché so cosa vuol dire avere genitori che non ti abbracciano", aveva raccontato una volta. E infatti Viktorija e Virginia lo hanno sempre descritto come un padre speciale, unico. E andando sempre oltre la retorica. Viktorija lo aveva raccontato in un libro, "Sinisa, mio padre", e lo aveva definito dolce, affettuoso e vero. Virginia gli aveva dato una nipotina, Violante, e tredici mesi fa Mihajlovic aveva scoperto la felicità di essere nonno.

Arianna. La famiglia Mihajlovic ha definito la morte "ingiusta e prematura", ed è davvero così. Il 4 aprile scorso Arianna aveva postato una foto ancora con loro due, stretti e sorridenti: "Come quando torni a casa e posi le chiavi all'ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro". Si erano conosciuti nei gloriosi anni Novanta: lei soubrette a Luna Park, vent’anni, bellissima; lui calciatore di Serie A, campione, faccia da duro. Era il 1995. Il locale si chiamava "L’ultima follia", ma non c’è più. Sinisa giocava nella Sampdoria, quel giorno era Roma per vedere un amico. "Lui è arrivato - ha sempre scherzato Arianna -, io ho lasciato il programma a metà: mi ha stroncato la carriera". Sinisa e Arianna non erano solo indivisibili, belli, insuperabili, felici; erano anche la faccia vera dell’amore. Dopo che lui era uscito dal tunnel della leucemia la prima volta, i due avevano cominciato a girare tutti i format tv, le trasmissioni, i gala. Nessuna vanità. "Ci vogliamo solo divertire un po’", aveva raccontato Arianna una volta, che addirittura era riuscita a convincere Sinisa a ballare un tango a Ballando con le stelle. A Domenica In era stata Mara Venier a dire tutta la verità: "Siete la coppia più bella del mondo". E Sinisa aveva sorriso, con quel sorriso radioso e aveva detto: "Arianna è sempre più bella".


► Miha, duro come la vita. Da un Paese in disfacimento ai vertici d’Europa, sulla scia delle sue punizioni da 160 km/h. Eriksson gli cambiò ruolo e lui anche da tecnico divenne un precursore del calcio di oggi. Ha conosciuto la guerra, poi in Italia ha imparato a piangere e persino ad accettare gli scherzi dei suoi giocatori.

Non era la faccia brutta e cattiva del calcio. Queste baggianate lasciamole ai maestri della vita altrui. Sinisa Mihajlovic del calcio era la faccia seria e per questo rara. Forse anche sporca, perché no, convinto com’è sempre stato che per rimanere presenti a ciò che si fa bisogna portarsi dietro tutto il corpo e tutta l’anima, in ogni situazione. Anche in quelle evidentemente sbagliate. Anche quando insultò Vieira tirando in ballo il colore della pelle, quando camminò sulla faccia di Mutu e lanciò una bottiglia contro un delegato dell’Uefa. Tutte cose atrocemente sbagliate vent’anni fa e addirittura inaccettabili oggi che siamo cresciuti. Si comportava così, pagava e poi sosteneva di non essere pentito, bensì addolorato di non essere stato sé stesso in quelle circostanze. Siamo cresciuti tutti, anche lui. L’ho capito quando ho imparato a piangere, diceva. Da calciatore scalciava, da allenatore i suoi allievi lo guardavano spauriti. Per un po’. Poi comprendevano che sotto la corazza di freddo e urla c’era ironia, c’era sensibilità e c’era conoscenza. Allora cominciavano persino a fargli scherzi telefonici, che lui spesso coglieva al volo e annientava sul nascere. Chi voleva offenderlo lo chiamava zingaro, e Mihajlovic si offendeva perché capiva l’intenzione.

Non fosse per quella, si sarebbe limitato ad annuire. Metà croato metà serbo, figlio di un’operaia e di un camionista, l’apocalisse jugoslava gli esplose tra le mani. "Vidi i miei parenti che si ammazzavano tra loro". Per sua fortuna era già calciatore all’epoca, anche se aveva faticato a diventarlo. Quando era bambino i genitori uscivano di casa alle sei della mattina e un giorno il padre gli aveva regalato un pallone per non farlo annoiare. Giocava da solo, stando attento a non far uscire il cuoio dall’erba in modo da non rovinarlo. Quando riuscì ad avere un pallone di scorta, si mise a calciare contro la serranda di un vicino di casa. Che a buon diritto avrebbe potuto reagire male e invece profetizzò al ragazzino un futuro da professionista. Ma questa è aneddotica. A lui non dispiacerebbe, visto che amava raccontare queste cose e le ha ribadite in un libro. Il Mihajlovic dalla faccia seria e sporca e dal sinistro a tifone dei nostri ricordi cresce nella squadra di Borovo che adesso è Croazia, poi passa al Vojvodina, quindi alla Stella Rossa Belgrado, che pochi anni prima lo aveva bocciato e con lui vince una Coppa dei Campioni. Non siamo ancora nell’epoca dello scouting semiautomatico, però tra successi internazionali e punizioni violente gira la voce di questo ragazzo poco più che ventenne, centrocampista feroce.

L’università di Belgrado gli misura il tiro a 160 chilometri orari. La Roma AS, che ha negli archivi mentali il sibilo delle punizioni di Agostino Di Bartolomei, lo porta in Italia. Funzionerà, non solo per le punizioni, ma anche per l’evoluzione del giocatore Mihajlovic, che di colpo, come Di Bartolomei appunto, da centrocampista diventerà centrale arretrato, direttore generale della difesa, istintivo precursore della costruzione dal basso. Funzionerà, ma non alla Roma AS. Funzionerà alla Sampdoria e alla Lazio, dove lo porta sempre con sé, come fosse una coperta di Linus, Sven Göran Eriksson. E pure all’Internazionale FC, dove Sinisa chiude la carriera di calciatore nel 2006, prendendosi a tavolino il suo secondo scudetto dopo quello in biancoceleste. È serio. È lucido. È la fonte della sapienza nei club che frequenta e in Nazionale, dove segna meno ma traccia la strada degli ultimi fuochi della Jugoslavia, attraversando i cambi di denominazione geografica e le spartizioni e le dissoluzioni. Durante una partita in cui la Lazio viene bloccata e affettata come un salame da avversari particolarmente in forma, Eriksson si lascia scappare, ad alta voce: "Sempre così, quando manca Sinisa". In Serie A ha segnato 28 gol su punizione e sembra sia un record. Tre in una singola partita, com’è riuscito anche a Giuseppe Signori.

La potenza e la precisione possono passare con il tempo, la perizia tattica no. Diventare allenatore per Mihajlovic è uno sviluppo naturale, una volta che ha imparato a piangere e ad accettare gli scherzi degli uomini e della sorte. E non è un cammino da poco il suo. Studia da vice di Roberto Mancini all’Internazionale FC e se ne va quando arriva Mourinho. Non è che i due non si piacciano, è che mescolare due ingredienti così non è prudente. Poi Sinisa ha voglia di sperimentarsi in proprio. Cominciando dal Bologna, che aveva bisogno di una iniezione di punti e lui glieli procura prima di essere esonerato. Vive tutte le vicissitudini dell’allenatore medio in Italia, non importa quanto prestigioso o quanto messianico. Lo usano, lo mandano via, se ne va lui scuotendo la polvere dai calzari come a Catania. Continua alla Fiorentina, sfiora l’Internazionale FC, diventa ct della Serbia ma non raggiunge il Mondiale. Alla Sampdoria ha segnato il territorio e infatti lo richiamano come tecnico. Con il Milan AC va in finale di Coppa Italia, con il Torino AC fa il record del girone di andata, con lo Sporting Lisbona quello della rescissione rapida, nove giorni dopo l’ingaggio. E torna a Bologna. Sempre con in testa quell’idea di aggredire più che attaccare, di miscelare la qualità con la forza di spirito. Di non lasciare mai indietro il corpo e l’anima. Sarà banale ma questo era Sinisa Mihajlovic, che non ha mai preteso di essere la luce del mondo. Semmai un vento libero.


• Da Il Messaggero del 17 dicembre 2022:

► Audacia e fragilità il destino in comune con gli “eroi” del ‘74. Bandiera laziale. Come fai a non pensarci, adesso? Adesso che anche Sinisa Mihajlovic se l'è portato via quel male.

Muore nella stessa clinica in cui si spense, dopo un’altra rinascita che era stata illusione, Tommaso Maestrelli. Maestrelli e lui se ne vanno a 54 anni (la vita di Tom è durata solo quattro mesi in più). E come l’allenatore più amato dai laziali, cento anni quest’anno, un passato breve e di scarso successo nella Roma AS e poi solo gloria nella Lazio. E lo scudetto a sorpresa, una vittoria da impazzire: nel 1974 come nel 2000. Allora dalla sua stanza di degenza alla Collina Fleming Tommaso osservava Wilson e gli altri allenarsi con il binocolo. Mihajlovic a Bologna aveva i tablet per queste cose. A Sinisa il destino non ha concesso un ritorno che forse solo lui avrebbe voluto: è stato vicino al ritorno alla Roma AS, da allenatore. Non si sarebbe fatto tanti problemi: "Ho vissuto due guerre vere, avrei sopportato gli insulti come ho fatto sempre". Ma il filo che lo legava a Roma è comunque laziale anche per il dramma della malattia. Ha girato tante squadre, non ha mai girato intorno: "Sono tifoso biancoceleste". Una singolare sintesi di destini belli e maledetti, di abbracci e lacrime quella che unisce alcuni eroi di queste epopee: in campo, infatti, Sinisa era un... Chinaglia. Giocatori con il coraggio di prendere anche le strade sbagliate per non arretrare: guasconi e fortissimi, sfrontati e provocatori fino a varcare i limiti dell’autolesionismo. Come catalogare l’amicizia di Miha con uno come Arkan, il criminale di guerra serbo cui fece dedicare uno striscione dalla curva Nord? O immaginare il gesto provocatorio di indicare la curva nemica dopo un gol segnato in faccia o mandare a quel paese un ct in mondovisione (e questo lo fece Chinaglia, nel 1974).

Gente, quelli come Sinisa e Giorgione, che si sono sempre assunti le responsabilità delle scelte: avrà giovato alla carriera di Sinisa presentarsi in campo a Roma con il disegno di un bersaglio sulla maglia quando Belgrado era bombardata dalla Nato? O dire tutta la verità quando scoppiò il putiferio in campo in Coppa dei Campioni - Champions League con Vieira (diventò anche suo allenatore all’Internazionale FC)? No, ma Sinisa le cose le diceva e le faceva. Miha ammette e si prende la squalifica: "Gli ho detto negro di m. perché lui continuava a dirmi zingaro di m." No, non gli ha giovato, ma a dire la verità e presentarsi sempre con il mirino in petto ha significato tanto per i compagni, i tifosi e anche gli avversari. Uno capace di reinventarsi tante volte nella vita partendo sempre dal suo piede sinistro, ma a scuola era così secchione da aver imparato, per non subìre punizioni, come fare tutto anche con il destro. Quel piede sinistro, però, gli ha regalato il record di punizioni segnate della serie A. Centrocampista offensivo, ala, difensore centrale: sempre leader. Anche nella malattia: lui, che serio sono nè stato mai, si è fatto serio. Ha lasciato lo spazio al cuore grande da multi-papà (sei figli, un grande amore per Arianna, sua moglie) e condiviso la tenerezza che riservava a pochi: i messaggi sempre giusti, l’esempio trasmesso finché ha potuto ai suoi giocatori. E a tutto il mondo, che ora glielo riconosce con le lacrime agli occhi per una speranza spezzata di rinascita contro l’ennesimo nemico fortissimo. Stavolta più forte di tutto e di un cuore che non voleva smettere di battere.


► Ciao Sinisa. Ha lottato in campo e nella vita. L’addio di Mihajlovic a 53 anni: da tre combatteva con la leucemia. La sua battaglia ha commosso il mondo del calcio (e non solo).

Lo ricorderemo sempre per la fierezza con cui ha combattuto, per tre anni, il male che l’aveva colpito. E per l’atroce ruolo che gli era toccato rappresentare, quello più drammatico, purtroppo da Galata morente, dell’uomo che vanamente si ribella al destino fino all’ultimo istante, ma è costretto a soccombere. Perché alla fine Sinisa Mihajlovic ci ha lasciati ieri, a Roma, nella clinica Paideia in cui ha trascorso gli ultimi giorni. Se ne va giovane, a 53 anni, per colpa di una leucemia mieloide acuta che l’aveva aggredito all’inizio del 2019, l’uomo che non si era mai piegato né spezzato, di fronte a nessuno. Era il suo bello, la sua unicità, il suo orgoglio. Ha ceduto solo a una malattia assassina e inesorabile, ribellandosi con furia, cadendo e rialzandosi dopo due pesanti cicli di cure, chissà se presago della fine, ma indomabile sempre, circondato dalla sua meravigliosa famiglia: la moglie Arianna, i 5 figli (e un altro avuto da una relazione in età giovanile), da poco anche una nipotina. Ma non c’è stato niente da fare, contro la bestia che gli aveva avvelenato il sangue. Un paio di settimane fa lo si era visto per l’ultima volta, affaticato ma ancora lucido e divertente, alla presentazione del libro di Zdenek Zeman, a Roma.

Un combattente da record. Quando la malattia si era manifestata, Sinisa l’aveva annunciato a modo suo, ma umanamente impaurito da ciò che lo attendeva. Era di marzo, nel 2019: "Ricevere la notizia è stata una bella botta, mi sono chiuso due giorni in camera a piangere e a riflettere. Mi è passata tutta la vita davanti... Ora che farò? Rispetto la malattia, ma la guarderò negli occhi, la affronterò a petto in fuori e so che vincerò questa sfida. Vado subito in ospedale, prima comincio le cure e prima finisco. La leucemia è in fase acuta, ma attaccabile: ci vuole tempo, ma si guarisce. Non voglio far pena a nessuno, ma spero che tutti capiscano due cose: nessuno è indistruttibile e la prevenzione è importante. Nella mia vita ho sempre dovuto combattere, nessuno mi ha regalato nulla e sono sicuro che da questa esperienza ne uscirò come un uomo migliore". Si cura, e mentre si cura continua ad allenare la squadra, anche in videoconferenza dall’ospedale, poi torna, la riprende in mano, finirà la stagione 2019-2020 con la salvezza, sempre mostrandosi, senza paura, senza vergogna, anche col volto segnato. È stato un esempio, e Bologna l’ha eletto cittadino onorario. La sua battaglia contro il male e la sua fierezza nell’affrontarla, lo hanno fatto amare e apprezzare molto più di prima, perché non era più il nemico antipatico da affrontare in campo, era un uomo che soffriva e pativa come tanti altri. Tutti gioirono quando sembrò che il peggio fosse alle spalle, e Sinisa andò pure a "Ballando con le stelle", insieme alla moglie Arianna, in imbarazzo perché il ballo non era il suoforte.

Mentre in campo, beh, in campo.È stato uno dei più straordinari combattenti della serie A, un uomo-squadra come ne sono esistiti pochi, e al tempo stesso il sinistro più portentoso che si ricordi, era davvero un ciclone il sinistro di Sinisa, quando sorvolava le barriere e si schiantava in rete: è tuttora suo il record di gol su punizione diretta in serie A, ben 28, a pari merito con Andrea Pirlo. Ma Sinisa non è stato certo solo i gol che ha segnato, o che ha evitato di far incassare nella sua lunga carriera da difensore centrale, dopo gli inizi da esterno sinistro. Né è stato le polemiche, anche dure, anche estreme, in cui è stato coinvolto, o in cui lo coinvolgevano. Deprecabili quelli che dalle curve gli davano dello "zingaro", ma a volte era lui il primo ad accendere le micce in campo: duro, a volte scorretto oltre i limiti, prese anche le sue belle squalifiche per gesti e gestacci. Uno sputo a Mutu gli costò 8 giornate dall’Uefa, un’altra volta rivolse un epiteto razzista a Vieira di cui si scusò, ed è rimasta celebre la sua amicizia col criminale di guerra Zaliko Raznatovic, la "Tigre di Arkan", mai rinnegata, perché, diceva Sinisa, risaliva a molto tempo prima che il conflitto in Jugoslavia scoppiasse. Ma soprattutto, Sinisa è stato un uomo che ha sempre caratterizzato le squadre in cui ha giocato, che non erano mai banali o sciatte, visto che avevano lui dentro il cuore. Squadre che hanno lasciato segni: la Stella Rossa Belgrado di Belgrado, addirittura campione d’Europa per la prima e unica volta nella sua storia nel 1991 con un Mihajlovic appena 22enne, la Lazio di Eriksson che fu la più vincente di sempre nella storia del club, persino l’Internazionale FC dove chiuse giocando poco(e ne era assai stizzito), insieme al suo amico Mancini diventato allenatore, che in quei due anni ricominciò a vincere. Molto della sua tempra scaturiva dalle vicende vissute in patria. Nella sua Vukovar, dove i serbi come lui erano in minoranza rispetto ai croati, si scatenò l’inferno quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, e Sinisa vide parenti in armi l’uno contro l’altro, improvvisamente, anche nella sua famiglia, e la sua città distrutta. Anni terribili chel’hanno segnato: "Io sono uno che ha fatto due guerre, cosa volete che siano per me le polemiche del calcio?". La sua vita cambia quando arriva alla Roma AS, e in un negozio del centro conosce Arianna, sua moglie. Poi la Samp, quattro anni a Genova in cui da terzino sinistro diventa difensore centrale, l’incontro fatale con Eriksson e Mancini, il sodalizio che continua nei sei anni alla Lazio prima della chiusura all’Internazionale FC. Poi la carriera di allenatore, il Bologna e il Catania, poi la Fiorentina, un anno alla guida della Serbia (dove caccia Ljajic, che non voleva cantare l’inno), la Samp, la grande occasione al Milan AC (solo un anno, e rapporti mai facili con Berlusconi), il Toro, fino agli ultimi tre anni al Bologna.

A marzo la ricaduta. Quando la leucemia si è ripresentata, Sinisa l’ha annunciato di nuovo a testa alta, lo scorso marzo. Ma il secondo ciclo di cure al Sant’Orsola di Bologna, non ha ottenuto gli effetti sperati, e negli ultimi mesi si era fatto tutto troppo duro. L’esonero doloroso del Bologna, lo scorso settembre, da molti criticato, in realtà parve un atto dovuto, più pietoso che crudele. Sinisa se ne va di 16 dicembre come un altro laziale, Felice Pulici. Un giorno, parlando di un suo giocatore che pativa il peso della fascia di capitano del Torino AC, osservò: "È fatica alzarsi alle 4.30 e andare al lavoro alle 6, farlo tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questa è fatica vera. Essere capitano del Toro è solo un orgoglio e un piacere". Sinisa era questo qui, e un milione di altre cose ancora. Indimenticabili.


► La moglie: "Morte ingiusta, era un uomo esemplare".

Mille sono le parole che provano – invano – a restituire una forma alla sofferenza, a darle una prospettiva, ad attribuirle un ordine. "La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic". Ingiusta e prematura. Dondola sulla saldezza di due voci la pena del mondo dello sport. Ingiusta. E prematura. "Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato", ha proseguito la famiglia. "È stata davvero una perdita notevole",ha ricordato Dino Zoff, che di Mihajlovic è stato anche l’allenatore nella Lazio. Ed ecco l’ex patron Sergio Cragnotti, il presidente dello scudetto del 2000. "È una grande sofferenza. Sinisa era un grande uomo". Ad attardarsi nel ricordo sono stati in particolare i compagni di squadra della Lazio campione d'Italia. "Sei stato un guerriero. Un esempio per tutti noi e soprattutto per me... Non ti dimenticherò mai", ha scritto il capitano di allora Alessandro Nesta.

La fragilità della vita. E ancora. "Mio fratello maggiore, compagno di mille battaglie, che tristezza la verità. Baci in cielo amico mio, ci mancherai tanto", ha aggiunto Juan Sebastian Veron. E poi. "Com’è terribile la fragilità della vita, oggi se ne va un grande giocatore, grande compagno di squadra e grande persona",ha detto il cileno Marcelo Salas. E certo non sarebbe potuto mancare il ricordo di Claudio Lotito: "Un grande laziale, un guerriero in campo e nella vita. Il suo coraggio sul terreno di gioco è stato secondo solo a quello dimostrato di fronte a una grave malattia". E a seguire. "Sono profondamente addolorato, è un giorno triste per il calcio italiano. Sinisa è stato un protagonista dentro e fuori dal campo, un esempio di passione, determinazione e coraggio, in grado di ispirare e di emozionare", ha dichiarato il presidente della Figc, Gabriele Gravina. E l’intero mondo del calcio – giocatori, club, arbitri – ha voluto tributare a Mihajlovic un applauso, e regalargli un ricordo. "Era uomo intelligente e capace, oltre che un padre eccezionale, innamorato della famiglia. Cosa lascia? La sua grinta, la volontà di non mollare mai", ha sussurrato Emanuele Tornaboni, il proprietario del circolo sportivo Due Ponti a Roma, lì dove spesso Sinisa giocava a padel. "È stata la più bella persona che abbia conosciuto in vita mia. Mi resta la sua sincerità, la sua amicizia", i pensieri di Vincenzo Cantatore, ex campione dei pesi massimi leggeri, uno degli amici più stretti di Mihajlovic. E Gianni Petrucci, numero uno della Federbasket: "Era un uomo straordinario" .Sospira Giovanni Malagò: "Siamo tutti molto tristi e più poveri".


► L’intervista: Sven-Goran Eriksson. "Sognava di guarire e allenare la sua Lazio". Il tecnico del titolo vinto nel 2000: "Dentro aveva il fuoco di chi era passato dalla guerra".

In lacrime, Sven-Göran Eriksson. Ha appena ricevuto la notizia in Svezia e parla con la voce tremula al telefono, singhiozzi interrompono più volte i suoi ricordi. Riavvolge il nastro, racconta ma, fra un ricordo e l’altro, piange ancora a dirotto. Perché, negli ultimi anni lo aveva sentito di meno, ma ha sempre considerato Sinisa Mihajlovic un figlio acquisito, uno dei principali artefici del suo scudetto alla Lazio: "Sarà impossibile dimenticarlo, è uno dei giorni più tristi della mia vita perché Sinisa non si meritava questo destino. Era un grande giocatore e un grande uomo, non doveva morire a 53 anni, così presto. Non è giusto". Cosa lascia al calcio? "Tutto, e non solo allo sport, insegnamenti a grandi e piccini, la voglia di non mollare mai fuori e dentro al campo, in nessun momento. Sino all’ultimo respiro. Ha sempre lottato, sempre, anche contro questa maledetta malattia". Ieri si è arreso. "Ma non si è mai nascosto, ha fatto vedere a tutti come si combatte, il suo coraggio. Ha mostrato i segni sul suo viso e sul corpo provato. Non ha voluto fermarsi nemmeno quando entrava e usciva dall’ospedale. A Bologna, per stopparlo, hanno dovuto esonerarlo...".

Forse avrebbe meritato un altro trattamento? "Non lo so, era un frangente delicato. Ha fatto una buona carriera da tecnico e non era finita, doveva continuare ancora a lungo. Purtroppo, il destino è stato crudele, anzi spietato. Io ero convinto che sarebbe guarito e che, prima o poi, lo avrei rivisto sulla panchina della Lazio. Era il suo sogno, era anche il mio sogno". Sarebbe stata la chiusura di un cerchio dopo lo scudetto? "Lui e Nesta erano incredibili. Sinisa giocava centrale, poi è diventato il terzino più forte del mondo e, senz’altro, è stato uno dei principali artefici dell’ultimo tricolore biancoceleste, ma anche un simbolo di quella squadra che aveva impressionato sir Alex Ferguson". Sinisa era un leader dello spogliatoio. "Certo, bastava guardare il suo sguardo. Era balcanico, veniva da una famiglia umile e aveva vissuto la guerra nell’ex Jugoslavia che lo aveva forgiato. Aveva il fuoco dentro più di chiunque altro. E poi era un vincente, per lui non esisteva perdere nemmeno, mai, nemmeno in allenamento, figuriamoci nelle partite importanti che abbiamo disputato in quelle stagioni straordinarie, indimenticabili. E trasmetteva questa forza a tutto il gruppo, questa era la sua grande forza". Insomma era già un allenatore in campo? "Sì, si capiva da come dava indicazioni ai compagni che percorso avrebbe fatto dopo aver smesso con il calcio giocato. Tutti lo rispettavano e lo seguivano. Già da giovane sapeva tutto del calcio, era molto intelligente, e questo è l’aspetto che più conta per un campione assoluto". Leggendarie erano la sue punizioni all’incrocio. "Per me le batteva meglio di Pirlo. Molte volte, alla fine di ogni seduta, si fermava a calciarle dalla trequarti con i ragazzi che lo ammiravano. Era troppo forte, aveva un piede fatato, ma ogni risultato era anche frutto del suo sacrificio e del suo spirito. Si allenava ed esercitava duramente, e lo faceva ogni giorno con lo spirito del ragazzino che tirava i primi calci e sognava una carriera da grande calciatore". Purtroppo non è riuscito a battare la leucemia. "Ancora non ci credo. Sinisa era sicuro di vincere sempre, anche stavolta. L’ho sentito più volte negli ultimi anni, anche nei momenti più duri della malattia, ma era sempre positivo, fiducioso che si sarebbe messo alle spalle quella brutta bestia". Vuole mandare un messaggio ai suoi cari? "Sono vicino alla moglie Arianna e a tutta la sua famiglia, che dovrà comunque essere orgogliosa del suo ricordo. Sinisa, un grande uomo, leggenda del calcio. Non ti dimenticherò mai".


► Le due sponde di Roma e quello scudetto da leader.

Sinisa Mihajlovic ha ottenuto tanto da Vujadin Boskov e, forse, tutto da Sven Goran Eriksson, uniti dalle vittorie e dall’amore per la Lazio. Il primo (a cui a Brescia, nel ’93, consigliò di far entrare "il ragazzino", Francesco Totti) lo ha portato a Roma dalla Stella Rossa Belgrado di Belgrado; il secondo lo ha trasformato in quello splendido difensore centrale che abbiamo ammirato per tanti anni, prima alla Sampdoria, dove ha fatto le prove generali, quindi di rientro nella Capitale, ma sulla sponda laziale. Con quest’ultima maglia è arrivato ai successi, sfiorando uno scudetto nel 1999 e infine vincendolo, sempre da protagonista e trascinatore. Leader dentro e fuori. L’anno dello scudetto comincia con il pensiero della delusione della stagione precedente, quando il Milan AC all’ultima giornata vince a Perugia e la Lazio vede sfumare il sogno. Sinisa salta due partite delle prime tre, con Cagliari e Torino AC, gioca invece con il Bari. Deve aspettare ottobre per la prima rete della stagione che arriva contro l’Udinese. Amaro poi il gol su rigore nel derby, che la Lazio consegna alla Roma AS: Sinisa segna su rigore, ma la Lazio era già sotto di quattro gol. Quello è stato il momento più basso, con la Lazio in affanno e che perde certezze. Miha ha qualche problema fisico che lo tormenta. Torna a segnare a Piacenza e poi con il Bari e a Torino AC. L’ultima rete contro la Fiorentina, è il gol della rimonta, il 3-2 prima del pareggio di Batistuta. E’ l’ultima battuta d’arresto della Lazio, che procede spedita verso lo scudetto. Le ultime quattro vittorie portano al titolo. La lunga attesa, in campo, con la Reggina all’ultima giornata, Sinisa la vive in tribuna. Era assente. L’immagine finale, lui in campo per la festa, quando Collina decreta la fine di Perugia-Juve e la sua Lazio è campione d'Italia. Un evento che non si ripete spesso da queste parti. La Lazio ha vinto. E lui c’era. Ed è stato al centro del mondo.

Il timbro. I calci piazzati, corner, punizioni, erano sentenze. Sinisa ha costruito in biancoceleste i suoi successi, la Lazio è stata la sua famiglia. Con il compagno Nesta, il fratello Mancini: lui, una guida. Qui è cresciuto e si è fatto uomo, ha vissuto la piena maturità: l’anno dello scudetto biancoceleste ha segnato, da difensore, tredici reti, con sette assist. Era l’allenatore in campo. Dalla Samp alla Lazio, sempre con l’amato Sven, l’uomo della sua trasformazione tattica. È stato un "costruttore" dell’azione dal basso ante litteram. Non se ne parlava in maniera ossessiva come oggi ma lui già l’aveva inventata. La Lazio è il palcoscenico di successi, Roma la sua città dell’amore, qui ha conosciuto Arianna e qui sono cresciuti i suoi cinque figli, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas, ai quali ha trasmesso la passione per i colori biancocelesti. Qui ha vinto tanto. Nel 1999 sigla il primo gol della storia della Lazio in Champions, in casa del Bayer Leverkusen, su punizione. Addirittura, in campionato, stabilisce il record: ne fa tre su altrettanti calci piazzati, contro la sua Sampdoria il 13 dicembre 1998. Lascia la Lazio dopo sei stagioni intense (193 partite e 33gol), portandovi a uno scudetto (2000), due Supercoppe Italiane (1998 e 2000), una Supercoppa europea (1999), una Coppa delle Coppe (1999) e due Coppe Italia (2000 e 2004). Dal 2004 al 2006 passa all’Internazionale FC al seguito del suo inseparabile amico, proprio lui, Roberto Mancini. E lì diventa il cannoniere più anziano in serie A, con i suoi 37 anni abbondanti. Vince anche in nerazzurro, 2 Coppe Italia (suo il gol contro la Roma AS nella finale di ritorno) e uno scudetto, non sul campo, ma assegnato a tavolino per la vicenda Calciopoli. La sua carriera è cominciata nella ex Jugoslavia.

L'ascea. Da lì, una continua ascesa. Nel 1987 arriva il titolo Mondiale Under 20 con la maglia della sua nazionale, poi ruba l’occhio a tanti osservatori durante un torneo in Germania e viene premiato dal Vojvodina, con cui vince il titolo della Prva Liga, superando colossi come Stella Rossa Belgrado, Hajduk Spalato e Dinamo Zagabria. Sinisa rimane un’altra stagione con il Vojvodina per assaporare l’ebbrezza della sua prima partecipazione alla Coppa dei Campioni che vincerà nel ‘91 con la maglia della Stella Rossa Belgrado, a Bari con il Marsiglia, segnando una delle reti decisive dal dischetto dopo i supplementari. Con i biancorossi vinse pure due campionati e l’Intercontinentale, prima che in Jugoslavia scoppiasse la guerra, che lo ha costretto a trovare nuove vie di speranza altrove. In Italia ha vinto; in Italia ha perso la sua battaglia più importante. Ma con smisurato onore.



Palmares





La pagina pubblicata dalla Gazzetta dello Sport del 15 luglio 2019 attraverso la quale Sinisa Mihajlovic ringrazia tutti coloro che gli hanno manifestato affetto e vicinanza dopo la notizia della malattia



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