Mihajlović Siniša

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Difensore serbo, nato a Vukovar (Croazia) il 20 febbraio 1969 e deceduto a Roma il 16 dicembre 2022.
Milita nel Vojvodina, nella Stella Rossa Belgrado (con cui vince una storica Coppa dei Campioni), poi nella Roma AS per due stagioni. Viene acquistato nel 1998 dalla Sampdoria e disputa successivamente 6 stagioni in maglia biancoceleste. Con la Lazio colleziona 126 presenze e 20 reti in Campionato. Nel 2004 passa all'Internazionale FC dove chiude la carriera da calciatore. Campione d'Italia nella stagione 1999/2000, ha segnato il primo storico gol della Lazio in Coppa dei Campioni - Champions League. Ottimo difensore - dopo gli esordi da ala, di qui il numero 11 sulle spalle, poi conservato per il resto della carriera - Sinisa è stato un calciatore dotato di grande visione di gioco che sapeva unire a un marcato agonismo, copriva bene gli spazi e grazie ad una tecnica sopraffina e a un calcio preciso e lungo sapeva ribaltare velocemente il versante di gioco. Mancino naturale, è stato uno dei migliori specialisti di tutti i tempi nel tirare i calci di punizione. Sapeva, infatti, unire la potenza al colpo d'effetto che conferiva alla palla traiettorie imprevedibili.
Terminata la carriera di calciatore, diviene allenatore in seconda dell'Inter di Roberto Mancini. Dal novembre 2008 allena il Bologna, ma viene esonerato nell'aprile 2009. A dicembre 2009 viene assunto dal Catania ma si dimette alla fine del campionato e va ad allenare la Fiorentina nella stagione 2010/11. Confermato nella stagione seguente, il 7 novembre 2011 viene tuttavia esonerato. Dal 21 maggio 2012 diviene Commissario Tecnico della Nazionale Serba. Il 21 novembre 2013 assume la guida tecnica della Sampdoria che nel frattempo ha esonerato il precedente allenatore Delio Rossi. L'esordio sulla panchina blucerchiata avviene proprio nella gara disputata dai liguri contro la Lazio. Nella stagione 2015/16 passa sulla panchina del Milan AC dove viene esonerato a poche giornate dalla fine dopo aver conquistato l'accesso alla finale della Coppa Italia. Diventa poi allenatore del Torino AC per la stagione 2016/17 e viene confermato per la stagione successiva 2017/18 ma è esonerato a gennaio 2018. A giugno 2018 assume la carica di tecnico dello Sporting Lisbona (Portogallo), ma dopo nove giorni viene sollevato dall'incarico.
A gennaio 2019 viene ingaggiato del Bologna, in lotta per la retrocessione, al posto di Filippo Inzaghi e centra l'obiettivo della salvezza con una giornata d’anticipo pareggiando 3-3 contro la Lazio. Il 13 luglio 2019 annuncia in conferenza stampa di abbandonare momentaneamente la guida della compagine felsinea per sottoporsi a cure mediche, a causa di una forma acuta di leucemia. A tre anni e mezzo dal suo incarico come allenatore degli emiliani, Sinisa - che combatteva ancora contro una recidiva ripresentatasi nel corso della primavera del 2022 - il 6 settembre viene esonerato dal Bologna a causa di un deludente avvio di campionato della squadra rossoblù. Nel novembre 2022 un'ulteriore recidiva lo costringe a pesanti cure alla Clinica Paideia di Roma. Nonostante tutti i tentativi dei medici e la sua forza d'animo, spira nella tarda mattinata del 16 dicembre 2022 nella struttura sanitaria di Roma nord.




Vasta eco e profondo dolore hanno caratterizzato la notizia della prematura scomparsa di Sinisa Mihajlovic nella giornata del 16 dicembre 2022. Gli articoli seguenti, tratti da vari organi di stampa, ci aiutano a ricordare e ci raccontano ulteriormente la figura del grande Campione biancoceleste.
• Dal Corriere dello Sport del 17 dicembre 2022:
Sinisa così fa troppo male. È morto ieri, a 53 anni, sconfitto dalla malattia. Si è battuto a lungo per ogni piccolo momento di felicità, sostenuto dal grande amore per il calcio. L’omaggio silenzioso dei tifosi, il dolore degli amici del figlio. La famiglia: "Morte ingiusta e prematura". A luglio del 2019 aveva annunciato di avere la leucemia.
► Roberto Mancini se ne va dalla clinica Paideia alle sette e mezzo di sera, da solo, guidando una 500 Abarth dopo essere rimasto un bel pezzo appoggiato a una parete, a vegliare l’amico scomparso. Sinisa Mihajlovic ha lasciato tutti, i figli, la moglie, la madre, il fratello di campo, all’inizio del pomeriggio. Alle 15.08 lo annuncia l’agenzia Ansa con un comunicato della famiglia: "Una morte ingiusta e prematura". A 53 anni è certamente prematura, e ingiusta come tutte le morti del mondo. Soprattutto, una morte testarda: ha inseguito Mihajlovic fino a sfinirlo, facendogli credere per un po’ di averla seminata, raggiungendolo quando era distratto e probabilmente felice. Leucemia mieloide acuta, sta scritto sulle scartoffie che i medici portano avanti e indietro lungo i corridoi della clinica romana. Siamo foglie al vento e fogli di carta. Mihajlovic aveva conosciuto la malattia a metà del 2019, se n’era liberato grazie a un trapianto di midollo osseo ricevuto da un donatore statunitense, era tornato a dialogarci qualche tempo fa. Diciamo pure a combatterci, anche se la storia del guerriero che non si arrende fa più settimo sigillo che storia reale di un uomo concreto qual era Sinisa. Che infatti poco la sopportava. Combatteva, ma per conquistare quel passo in più di terreno quotidiano: la partita da seguire in panchina, l’allenamento personale da portare avanti, un chilometro da aggiungere piuttosto che uno da sottrarre.
La serata a parlare in pubblico di calcio e di ciò su cui il calcio secondo lui si fondava, intelligenza, qualità e, in questo caso sì, voglia di vincere contro qualsiasi speranza. Per la lotta, lasciava fare alla medicina. Meno di tre settimane fa era alla presentazione di un libro di Zdenek Zeman, con il sorriso di chi si sente bene e al posto giusto. Domenica scorsa per un improvviso aggravamento era dovuto tornare alla Paideia, la clinica dove si era sempre curato sin dall’inizio del periodo alla Lazio. Stava vicino a casa sua, poi si è spostata nella sede attuale. Un candido poliedro regolare spezzato da cornicioni orizzontali, con i muri interni rivestiti di materiale azzurro. All’esterno, pannelli luminosi attraversati da nevicate di luce ricordano che è quasi Natale. Dentro, le stanze somigliano a camere d’albergo spaziose e comode. Ma sempre stanze d’ospedale sono. Odorano di medicinali e disinfettante. Mihajlovic era nella numero 326, al terzo piano. Ieri riposava, infine, con il viso segnato dall’infezione che lo aveva colpito, proprio nel momento in cui le sue difese non reagivano. Hanno visto i figli seduti in terra intorno al letto, la moglie Arianna accanto a lui, la madre sul divano del salottino attiguo alla camera. Un dolore intenso, composto ma non represso, non distante. E Mancini appoggiato alla parete.
Pochi amici della vicenda recente di Mihajlovic - come Massimo Ferrero, tuttora proprietario della Sampdoria, e dirigenti della Lazio di una volta - si sono avvicinati alla salma, mentre in tanti erano andati a salutare l’amico nei giorni scorsi, quelli della lotta finale per un respiro, per qualche parola. E in tanti torneranno oggi se, come sembra, la camera ardente verrà allestita nella stessa clinica in forma privata. Per domani è allo studio un omaggio pubblico in Campidoglio e il funerale è programmato per lunedì alle 11 nella basilica di Santa Maria degli Angeli, in Piazza della Repubblica a Roma. C’erano i tifosi, però. Qualcuno. Intimidito, discreto, rispettoso di un dolore che là, sotto il poliedro candido, si poteva soltanto intuire. A tarda sera in tre hanno tentato di portare una maglia della Lazio alla famiglia. Non li hanno lasciati entrare. Se ne sono andati senza protestare. Non erano lì per sé stessi, bensì per rendere omaggio alla memoria di un giocatore che li aveva glorificati e di un allenatore che ha tentato di glorificare altri ma sempre rivendicando, con pacato orgoglio, la sua specificità: non ho nulla contro la Roma AS e ovviamente contro nessuno, diceva, però io mi sento profondamente laziale. E diceva anche: nella vita serve coraggio e bisogna avere personalità.
Per esempio, Guido De Angelis racconta di quando Mihajlovic e Stankovic fuggivano in macchina dai bombardamenti in Serbia e Stankovic piangeva e Sinisa gridava: che cavolo piangi? E casualmente tutto finì trasmesso direttamente in radio. Per questo e per il resto, Mihajlovic era un personaggio verticale e trasversale. Divisivo nella misura in cui voleva esserlo, per pura onestà sentimentale e intellettuale. Da pomeriggio a notte, immerso in un’umidità sempre più cattiva, ha stazionato sul marciapiede opposto a quello dell’ingresso della Paideia un gruppetto di ragazzi. Guardavano verso la finestra della camera di Sinisa, da cui di tanto in tanto qualcuno ricambiava gli sguardi e i gesti. Tifosi anche loro, certo, ma senza bandiera. I più della Lazio, qualcuno della Roma AS. Tifosi per caso. Erano gli amici di Nicholas, uno dei figli lasciati da Mihajlovic. Non aspettavano alcuna resurrezione, neppure concettuale, di un idolo calcistico che aveva completato il suo percorso terreno, aveva vinto e perso, gridato e rotto serrande nei momenti di insofferenza, consolato e sostenuto in quelli di pedagogia, e Mihajlovic ne viveva perché sentiva di avere visto molto e di averne di cose da insegnare. No, quei ragazzi aspettavano soltanto che scendesse Nicholas, per incoraggiarsi insieme ad andare avanti. Nel frattempo, lo spiazzo davanti alla clinica si era svuotato. Sull’asfalto umido si riflettevano le scritte dei pannelli natalizi e la neve di luce continuava a cadere.
► "Ho perso un fratello". "Io e Mihajlovic abbiamo condiviso quasi trent’anni di vita insieme: lo portai alla Samp con un anno di ritardo, perché la Roma AS riuscì ad anticiparci. Grazie a lui ho fatto il gol più bello della mia carriera".
Non trova le parole, perché è tutto così difficile. Lo aveva capito da giorni che avrebbe perso il suo amico del cuore, ma poi è successo e anche se ti sei preparato non sai come affrontare il dolore e la nuova vita senza Sinisa. "Pochi giorni fa, prima che lo ricoverassero, avevamo visto insieme una partita del Mondiale. Ridendo e scherzando, stava abbastanza bene, era uno di quei momenti in cui non pensi a quello che stai affrontando e vivi come se nulla fosse". Roberto Mancini è sconvolto, non si era allontanato da Roma per stare accanto ad Arianna e ai suoi figli. "Sono cresciuti con i miei, abbiamo percorso tutte le tappe della nostra vita insieme, almeno quelle più importanti. Per me era un fratello, sì ho perso un fratello perché siamo andati oltre l’amicizia. Inevitabile quando condividi tante emozioni l’uno accanto all’altro". Niente sarà come prima. Tanti anni fa, Mancini pianse per la morte di Paolo Mantovani, un presidente-padre. Era il 1993 e Roberto con la Samp aveva vinto uno scudetto e perso una finale di Coppa dei Campioni contro il Barcelona a Wembley scrivendo la storia blucerchiata. L’anno successivo alla scomparsa del padrone della Samp, arrivò a Genova proprio Mihajlovic e non per caso. Lo rivela proprio l’attuale ct della nazionale italiana, che iniziò a fare mercato per i suoi club molto prima di arrivare a Roma e di collaborare con Sergio Cragnotti.
Decisivo, nel ‘99, quel consiglio al finanziere della Lazio: "Se deve cedere Vieri a Moratti, prenda Simeone perché ci farà vincere lo scudetto". Anche a Genova, molto più giovane, ebbe la vista lunga e oggi il ricordo assume un valore emotivo diverso. "Vidi Mihajlovic giocare con la Stella Rossa Belgrado l’anno in cui vinse proprio la Coppa dei Campioni, consigliai alla Samp di acquistarlo subito. Si trattava di un giovane di vent’anni che giocava come un veterano e in più aveva un sinistro da favola. La Roma AS fu più brava di noi e ce lo portò via, ma due anni dopo finalmente riuscimmo a prenderlo. Da quel momento è iniziata la nostra grande avventura". Quasi trent’anni insieme, anche se le rispettive carriere di allenatori li aveva separati dal punto di vista logistico. Mihajlovic aveva cominciato al fianco di Mancini all’Internazionale FC, come vice, ma aveva una personalità prorompente e un’ambizione pari a quella da giocatore per lavorare in coppia. Da solo iniziò nel novembre del 2008 a Bologna, guarda caso la società e la città in cui Roberto aveva iniziato a giocare. "Era inevitabile che le strade si dividessero, ma insieme abbiamo condiviso tanti anni con la Samp, con la Lazio e con l’Internazionale FC. Abbiamo vinto molto, quasi tutto, in un percorso condiviso. Il nostro non era un clan, era un grande gruppo di amici. Difficile catalogare i ricordi, come sarebbe mai possibile? Ce ne sono a centinaia, difficile anche fare una scelta".
Nessun rimpianto, se non quello di averlo perso per sempre. "Ma solo dal punto di vista fisico, perché Sinisa è sempre stato accanto a me e lo sarà anche adesso che non c’è più". C’è un lampo negli occhi di Mancini in una giornata così triste e devastante. Un pensiero improvviso, come se volesse allontanare il dolore o il pensiero che Mihajlovic non c’è più. "Sinisa mi ha fatto fare il gol più bello della mia carriera, come potrei avere dei rimorsi? Di tacco ne avevo fatti tanti altri, ma quello resta unico". Era il 17 gennaio del 1999, Parma-Lazio al Tardini: angolo di Sinisa, magia di Roberto, palla all’incrocio dei pali e abbraccione con Bobo Vieri, incredulo di fronte a tanta bellezza. "Oggi posso dire che è il più bello davvero" sussurra il ct che rende onore all’amico appena perso. C’era anche il gol di Napoli, al San Paolo, con la maglia della Samp ma l’emozione è diversa. "Non è giusto che una malattia così atroce si porti via un ragazzo di 53 anni. Sinisa ha lottato come un leone fino all’ultimo istante, come faceva in campo. Lo ricorderò per sempre così, tosto e coraggioso, le qualità per cui l’ho sempre voluto accanto a me".
► Sinisa e Roby per sempre. Insieme cambiarono la storia della Lazio.
Se n’è andato via proprio come aveva vissuto, dal primo all’ultimo giorno, lottando contro tutto e contro tutti e sempre senza paura. Sì, perché Sinisa non ha mai avuto paura di niente, non ha avuto paura delle bombe a Belgrado e di confessare che aveva dato del negro a Vieira, non ha avuto paura di una curva che lo sfidava e di una malattia che non lo aveva mai messo in ginocchio, fino a qualche ora fa. Stavolta ha dovuto affrontare un nemico che non si poteva schiacciare, è rimasto in trincea e lo ha combattuto a viso aperto, come faceva con gli avversari più veloci di lui, che Eriksson trasformò in un difensore capace di intuire prima che cosa avrebbe fatto il suo avversario. Non era rapido? E chissenefrega, spesso lo anticipava o addirittura lo spaventava, perché era un duro e non tutti avevano il coraggio di affrontarlo. Della Lazio era diventato un simbolo, un’icona, un’immagine vincente, anche se poi avrebbe scelto l’Internazionale FC per chiudere una carriera ricca di successi: fu invitato ad andarsene da Roma e il desiderio di seguire l’amico del cuore, Roby come lo chiamava lui, è stato più forte dell’amore per una squadra che gli era entrata nel cuore. Ogni volta che Mihajlovic è tornato a Roma, è stato accolto come un grande amico, mai come un nemico. Sotto la Nord, a mani giunte, per ringraziare la sua gente che oggi lo ricorda come Maestrelli, come Chinaglia, come Bob Lovati e Re Cecconi, come Wilson, Pulici e Governato, come tutti i campioni scomparsi con la maglia biancoceleste sulla pelle.
Sinisa era arrivato nell’estate del ‘98, qualche mese dopo il crollo della Lazio a Parigi, nella finalissima di Coppa UEFA contro l’Internazionale FC di Ronaldo. Fu proprio Mancini a suggerire prima a Eriksson e poi a Cragnotti l’acquisto del difensore della Samp, ancora prima di imporre l’arrivo di Simeone nell’operazione Vieri. "Non siamo cattivi, non abbiamo la mentalità per vincere, una Coppa Italia non può bastare: presidente, porti Sinisa a Roma". Mihajlovic era stato un terzino della Roma AS, ma nessuno osò ricordare il suo passato perché Sinisa era già proiettato nel futuro. Aveva un carisma che ti conquistava. Sbruffone, ma dolcissimo. Cattivo, ma onesto. Coraggioso, ma anche antipatico: se non entravi in sintonia con lui, non potevi capire le sue provocazioni, i suoi messaggi, le sue pretese ma anche le sue concessioni. Sinisa era tutto e il contrario di tutto, nel bene e nel male. Era talmente testardo nella difesa delle proprie idee, da interrompere per oltre un anno anche l’amicizia con Mancini, che invece era e sarà il suo amico per sempre. Non si erano capiti: Sinisa aggrappato come sempre alla sua Arianna, Roberto lontano da Federica per una dolorosa scelta di vita. Si sono ritrovati quando è comparsa la malattia, ma già avevamo intuito tutti che si sarebbero riabbracciati, come a Genova, come a Roma e come a Milano. Sempre l’uno accanto all’altro: Mihajlovic, in campo, per Roby era diventato un nuovo Vialli perché per vincere non bastava il talento, serviva qualcosa che non tutti i giocatori possiedono.
Proprio per questo Mancini lo aveva consigliato alla Lazio, dove Sinisa diventò un comandante. C’era il clan dei sampdoriani e c’era il clan degli argentini, nella squadra con cui Mihajlovic ha vinto uno scudetto, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea, 2 Coppe Italia e due Supercoppe scrivendo pagine indimenticabili della storia biancoceleste: ricordava la Lazio del ‘74 per gli umori e per gli amori. C’erano moltissimi campioni di cui potevano innamorarsi i bambini che andavano accompagnati dai genitori allo stadio. Di Padre in Figlio per sempre, ricordò Pino Wilson nella storica notte in cui riempì lo stadio Olimpico riunendo generazioni di laziali vincenti e perdenti: e non sapete quanti amavano, tra quei bambini, uno come Sinisa, che quando sorrideva senza sfidarti diventava tenero e irresistibile. Ti poteva regalare una maglia all’improvviso (rigorosamente la numero 11), oppure incazzarsi perché non credevi al suo pensiero. Nello stadio del Chelsea, lo Stamford Bridge, Mihajlovic segnò un gol storico, regalando alla Lazio una vittoria indelebile; il 13 dicembre del 1998 realizzò tre gol consecutivi su punizione contro la sua vecchia Samp, conquistando un record storico e forse imbattibile in eterno. Ma Sinisa ha anche calpestato Mutu e offeso Vieira, ha minacciato Nedved e consigliato a Boskov di lanciare Francesco Totti, con cui si sarebbe ritrovato nella Questura di San Vitale nella notte in cui il derby del 2004 venne sospeso per questioni di ordine pubblico: erano i capitani della Lazio e della Roma AS e dovevano rivelare i contenuti dei loro colloqui con gli ultrà in mezzo al campo. Mihajlovic era un angelo e anche un diavolo, ma non abbastanza cattivo da battere l’ultimo nemico, talmente infame da non sfidarlo pubblicamente: altrimenti avrebbe vinto Sinisa.
► "Per sempre uno di noi". La promessa di Conceiçao: "Veglieremo sulla tua famiglia". Couto e Fiore: "Ti saremo sempre grati". Eriksson: "Quel sinistro d’oro". Lotito: "Esemplare".
Si sentono solo silenzi che non riescono a parlarsi davanti alla clinica Paideia, sotto la camera 326 che custodisce le spoglie di Sinisa, l’ultimo leone. Roberto Mancini è accanto a lui da ore, fermo in un’immagine d’infinito. Gli altri vecchi amici di sempre ci sono senza esserci. Parlano i ricordi, echi di parole arrivano da tutta Europa mentre la pioggia a singhiozzo viene giù da un cielo confuso. Alessandro Nesta chiama Sinisa "mister", erano una coppia di amici e di centrali inimitabili: "Sei stato un guerriero. Un esempio per tutti noi e soprattutto per me". Dal Portogallo chiamano per conto di Couto e Conceiçao, chiedono informazioni su quando ci saranno i funerali: "Fernando e Sergio sono pronti a partire". Couto dice solo "grazie di tutto amico mio". Conceiçao, su Instagram, posta uno scatto con Sinisa, hanno le maglie della Lazio: "I veri trofei che conservo sono momenti come quelli che abbiamo vissuto insieme. Hai una famiglia in Portogallo che veglia sulla tua". Frammenti di vita arrivano addosso a tutti gli ex compagni di Sinisa. Anche Stefano Fiore ringrazia: "Sei sempre stato un esempio da seguire".
Lo scudetto. Sven Goran Eriksson ha la voce rotta, chiese Mihajlovic a Cragnotti per vincere lo scudetto e scudetto fu nel 2000 anche grazie alle sue "bombe": "Per me era molto più di un giocatore. E’ stato importantissimo per quei successi. Le punizioni, i rigori. Uno spirito enorme. E’ stato uno dei migliori al mondo, il suo sinistro era d’oro". Negli effetti ed affetti speciali della Lazio di Sinisa vivono ancora oggi i laziali. Sergio Cragnotti era il presidente di quei miti: "Sinisa ha dato un grande contributo ai trionfi della Lazio trascinando tutti con coraggio". A Cragnotti si è unito Claudio Lotito, il presidente della Lazio: "Di questo combattente dal grande cuore resterà una traccia indelebile nella storia della Lazio. Lo ricorderemo come merita, con l’abbraccio infinito della sua squadra e della sua gente". Il diesse Tare su Instagram: "Riposa in pace. Grande persona e grande campione". Tutta la Lazio è in lutto. Maurizio Sarri, appena terminata l’amichevole contro l’Hatayspor, ha rivolto un pensiero a Sinisa: "Ho i miei ricordi e vorrei mantenerli vivi. Un uomo di questo spessore ne lascia a tutti". Alessio Romagnoli è stato lanciato da Sinisa, piange: "Mi ha voluto alla Sampdoria e al Milan AC. Era una delle poche persone vere che ho conosciuto in questo mondo". Ciro Immobile ha vissuto la sofferenza degli ultimi giorni: "Umanamente è stata una delle persone con cui mi sono trovato di più a parlare. Ci incontravamo nella clinica dove andavo a fare terapie. L’avevo visto sofferente, mi faceva male al cuore". La Lazio, il Bologna. Riccardo Orsolini ha aperto il suo cuore: "Mi hai cresciuto sia come uomo che come calciatore, te ne sarò per sempre grato". Joey Saputo, presidente del Bologna, l’aveva esonerato a settembre, oggi lo piange: "Perdiamo un uomo straordinario, sapeva alternare i suoi celeberrimi atteggiamenti burberi ad una dolcezza fuori dal comune". Il cordoglio di Gabriella Bascelli, presidente della Fondazione S.S. Lazio 1900: "Immenso dolore".
Gli altri omaggi. Comunicati e messaggi s’alternano alle presenze in Paideia. Arriva Massimo Ferrero, ex presidente di Sinisa alla Samp: "Un super uomo. Cosa posso dirvi? Che non meritava l’esonero a Bologna? Non lo meritava". E scappa via in lacrime. S’intravede Vincenzo Cantatore, ex pugile, ex collaboratore di Sinisa a Bologna. Nella stanza al terzo piano c’è Maurizio Manzini, storico team manager della Lazio, ambasciatore della storia: "La sua grandezza, i consigli che sapeva dare". Il cordoglio di Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli: "Se ne va troppo presto un grande uomo. Un allenatore che in passato avevo pensato di portare a Napoli...". Fabio Capello e i derby più accesi: "Non si piegava, voleva rispetto e dava rispetto". La dedica di Gianni Morandi: "Passare tanti momenti insieme è stato un grande regalo". "Ciao Sinisa", il saluto di Vasco Rossi. Oggi siamo più soli, Vasco.
► La sua squadra più forte. Con Arianna un colpo di fulmine durante una trasferta a Roma. Hanno combattuto insieme. La moglie, i figli
e la nipotina: tutti sempre al suo fianco.
"Ci siamo innamorati subito, ci siamo guardati e non ci siamo staccati più". Se la forza dell’amore bastasse a cancellare il male e il dolore, dovremmo prendere la storia tra Sinisa Mihajlovic e Arianna Rapaccioni e diffonderla in questo benedetto mondo. C’è davvero tanto amore dietro questo dolore. Più forte che mai in queste ultime ore, così difficili e strazianti. Arianna non si è mai tirata indietro, è sempre rimasta al fianco di Sinisa. Lo aveva fatto sempre, nella buona e nella cattiva sorte. Il giorno che Mihajlovic aveva annunciato al mondo la sua malattia in una conferenza stampa: seduta in prima fila, a dargli la forza, c’era lei. E così aveva fatto dopo: andando in pellegrinaggio fino a San Luca per pregare; entrando e uscendo dall’ospedale Sant’Orsola; restando sveglia nelle lunghe notti di apprensione. E quando era stato dimesso la prima volta dall’ospedale di Bologna, a novembre 2019, dopo il terzo ciclo di cure, un’immagine era entrata dentro di noi: la foto che Arianna aveva postato su Instagram. Loro due, abbracciati. "Più bella cosa non c’è", c’era scritto.
Tutti. È difficile usare metafore nei momenti bui, ma certo la famiglia per Mihajlovic è stata davvero la squadra più forte. Arianna, romana, la mamma dei loro cinque figli: Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas. A questi si aggiunge anche Marko, nato da una precedente relazione. Forse è vero che Sinisa ha avuto molti più figli e nipoti di quanti possiamo immaginarne; i suoi giocatori, che erano diventati il suo rifugio negli ultimi tempi. Soprattutto quelli che avevano vissuto l’agonia della malattia, e che avevano pianto con lui, che lo avevano visto sofferente. E così, dopo l’annuncio della leucemia, la sua casa era diventata l’Italia, poi il mondo: una famiglia allargata. Lui ha sempre ringraziato, ma è della sua famiglia, quella grande ma ristretta, che Mihajlovic si è sempre preoccupato. A tavola sempre tutti insieme, stessi posti, niente cellulare. "Sono un padre affettuoso, perché so cosa vuol dire avere genitori che non ti abbracciano", aveva raccontato una volta. E infatti Viktorija e Virginia lo hanno sempre descritto come un padre speciale, unico. E andando sempre oltre la retorica. Viktorija lo aveva raccontato in un libro, "Sinisa, mio padre", e lo aveva definito dolce, affettuoso e vero. Virginia gli aveva dato una nipotina, Violante, e tredici mesi fa Mihajlovic aveva scoperto la felicità di essere nonno.
Arianna. La famiglia Mihajlovic ha definito la morte "ingiusta e prematura", ed è davvero così. Il 4 aprile scorso Arianna aveva postato una foto ancora con loro due, stretti e sorridenti: "Come quando torni a casa e posi le chiavi all'ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro". Si erano conosciuti nei gloriosi anni Novanta: lei soubrette a Luna Park, vent’anni, bellissima; lui calciatore di Serie A, campione, faccia da duro. Era il 1995. Il locale si chiamava "L’ultima follia", ma non c’è più. Sinisa giocava nella Sampdoria, quel giorno era Roma per vedere un amico. "Lui è arrivato - ha sempre scherzato Arianna -, io ho lasciato il programma a metà: mi ha stroncato la carriera". Sinisa e Arianna non erano solo indivisibili, belli, insuperabili, felici; erano anche la faccia vera dell’amore. Dopo che lui era uscito dal tunnel della leucemia la prima volta, i due avevano cominciato a girare tutti i format tv, le trasmissioni, i gala. Nessuna vanità. "Ci vogliamo solo divertire un po’", aveva raccontato Arianna una volta, che addirittura era riuscita a convincere Sinisa a ballare un tango a Ballando con le stelle. A Domenica In era stata Mara Venier a dire tutta la verità: "Siete la coppia più bella del mondo". E Sinisa aveva sorriso, con quel sorriso radioso e aveva detto: "Arianna è sempre più bella".
► Miha, duro come la vita. Da un Paese in disfacimento ai vertici d’Europa, sulla scia delle sue punizioni da 160 km/h. Eriksson gli cambiò ruolo e lui anche da tecnico divenne un precursore del calcio di oggi. Ha conosciuto la guerra, poi in Italia ha imparato a piangere e persino ad accettare gli scherzi dei suoi giocatori.
Non era la faccia brutta e cattiva del calcio. Queste baggianate lasciamole ai maestri della vita altrui. Sinisa Mihajlovic del calcio era la faccia seria e per questo rara. Forse anche sporca, perché no, convinto com’è sempre stato che per rimanere presenti a ciò che si fa bisogna portarsi dietro tutto il corpo e tutta l’anima, in ogni situazione. Anche in quelle evidentemente sbagliate. Anche quando insultò Vieira tirando in ballo il colore della pelle, quando camminò sulla faccia di Mutu e lanciò una bottiglia contro un delegato dell’Uefa. Tutte cose atrocemente sbagliate vent’anni fa e addirittura inaccettabili oggi che siamo cresciuti. Si comportava così, pagava e poi sosteneva di non essere pentito, bensì addolorato di non essere stato sé stesso in quelle circostanze. Siamo cresciuti tutti, anche lui. L’ho capito quando ho imparato a piangere, diceva. Da calciatore scalciava, da allenatore i suoi allievi lo guardavano spauriti. Per un po’. Poi comprendevano che sotto la corazza di freddo e urla c’era ironia, c’era sensibilità e c’era conoscenza. Allora cominciavano persino a fargli scherzi telefonici, che lui spesso coglieva al volo e annientava sul nascere. Chi voleva offenderlo lo chiamava zingaro, e Mihajlovic si offendeva perché capiva l’intenzione.
Non fosse per quella, si sarebbe limitato ad annuire. Metà croato metà serbo, figlio di un’operaia e di un camionista, l’apocalisse jugoslava gli esplose tra le mani. "Vidi i miei parenti che si ammazzavano tra loro". Per sua fortuna era già calciatore all’epoca, anche se aveva faticato a diventarlo. Quando era bambino i genitori uscivano di casa alle sei della mattina e un giorno il padre gli aveva regalato un pallone per non farlo annoiare. Giocava da solo, stando attento a non far uscire il cuoio dall’erba in modo da non rovinarlo. Quando riuscì ad avere un pallone di scorta, si mise a calciare contro la serranda di un vicino di casa. Che a buon diritto avrebbe potuto reagire male e invece profetizzò al ragazzino un futuro da professionista. Ma questa è aneddotica. A lui non dispiacerebbe, visto che amava raccontare queste cose e le ha ribadite in un libro. Il Mihajlovic dalla faccia seria e sporca e dal sinistro a tifone dei nostri ricordi cresce nella squadra di Borovo che adesso è Croazia, poi passa al Vojvodina, quindi alla Stella Rossa Belgrado, che pochi anni prima lo aveva bocciato e con lui vince una Coppa dei Campioni. Non siamo ancora nell’epoca dello scouting semiautomatico, però tra successi internazionali e punizioni violente gira la voce di questo ragazzo poco più che ventenne, centrocampista feroce.
L’università di Belgrado gli misura il tiro a 160 chilometri orari. La Roma AS, che ha negli archivi mentali il sibilo delle punizioni di Agostino Di Bartolomei, lo porta in Italia. Funzionerà, non solo per le punizioni, ma anche per l’evoluzione del giocatore Mihajlovic, che di colpo, come Di Bartolomei appunto, da centrocampista diventerà centrale arretrato, direttore generale della difesa, istintivo precursore della costruzione dal basso. Funzionerà, ma non alla Roma AS. Funzionerà alla Sampdoria e alla Lazio, dove lo porta sempre con sé, come fosse una coperta di Linus, Sven Göran Eriksson. E pure all’Internazionale FC, dove Sinisa chiude la carriera di calciatore nel 2006, prendendosi a tavolino il suo secondo scudetto dopo quello in biancoceleste. È serio. È lucido. È la fonte della sapienza nei club che frequenta e in Nazionale, dove segna meno ma traccia la strada degli ultimi fuochi della Jugoslavia, attraversando i cambi di denominazione geografica e le spartizioni e le dissoluzioni. Durante una partita in cui la Lazio viene bloccata e affettata come un salame da avversari particolarmente in forma, Eriksson si lascia scappare, ad alta voce: "Sempre così, quando manca Sinisa". In Serie A ha segnato 28 gol su punizione e sembra sia un record. Tre in una singola partita, com’è riuscito anche a Giuseppe Signori.
La potenza e la precisione possono passare con il tempo, la perizia tattica no. Diventare allenatore per Mihajlovic è uno sviluppo naturale, una volta che ha imparato a piangere e ad accettare gli scherzi degli uomini e della sorte. E non è un cammino da poco il suo. Studia da vice di Roberto Mancini all’Internazionale FC e se ne va quando arriva Mourinho. Non è che i due non si piacciano, è che mescolare due ingredienti così non è prudente. Poi Sinisa ha voglia di sperimentarsi in proprio. Cominciando dal Bologna, che aveva bisogno di una iniezione di punti e lui glieli procura prima di essere esonerato. Vive tutte le vicissitudini dell’allenatore medio in Italia, non importa quanto prestigioso o quanto messianico. Lo usano, lo mandano via, se ne va lui scuotendo la polvere dai calzari come a Catania. Continua alla Fiorentina, sfiora l’Internazionale FC, diventa ct della Serbia ma non raggiunge il Mondiale. Alla Sampdoria ha segnato il territorio e infatti lo richiamano come tecnico. Con il Milan AC va in finale di Coppa Italia, con il Torino AC fa il record del girone di andata, con lo Sporting Lisbona quello della rescissione rapida, nove giorni dopo l’ingaggio. E torna a Bologna. Sempre con in testa quell’idea di aggredire più che attaccare, di miscelare la qualità con la forza di spirito. Di non lasciare mai indietro il corpo e l’anima. Sarà banale ma questo era Sinisa Mihajlovic, che non ha mai preteso di essere la luce del mondo. Semmai un vento libero.
• Da Il Messaggero del 17 dicembre 2022:
► Audacia e fragilità il destino in comune con gli “eroi” del ‘74. Bandiera laziale. Come fai a non pensarci, adesso? Adesso che anche Sinisa Mihajlovic se l'è portato via quel male.
Muore nella stessa clinica in cui si spense, dopo un’altra rinascita che era stata illusione, Tommaso Maestrelli. Maestrelli e lui se ne vanno a 54 anni (la vita di Tom è durata solo quattro mesi in più). E come l’allenatore più amato dai laziali, cento anni quest’anno, un passato breve e di scarso successo nella Roma AS e poi solo gloria nella Lazio. E lo scudetto a sorpresa, una vittoria da impazzire: nel 1974 come nel 2000. Allora dalla sua stanza di degenza alla Collina Fleming Tommaso osservava Wilson e gli altri allenarsi con il binocolo. Mihajlovic a Bologna aveva i tablet per queste cose. A Sinisa il destino non ha concesso un ritorno che forse solo lui avrebbe voluto: è stato vicino al ritorno alla Roma AS, da allenatore. Non si sarebbe fatto tanti problemi: "Ho vissuto due guerre vere, avrei sopportato gli insulti come ho fatto sempre". Ma il filo che lo legava a Roma è comunque laziale anche per il dramma della malattia. Ha girato tante squadre, non ha mai girato intorno: "Sono tifoso biancoceleste". Una singolare sintesi di destini belli e maledetti, di abbracci e lacrime quella che unisce alcuni eroi di queste epopee: in campo, infatti, Sinisa era un... Chinaglia. Giocatori con il coraggio di prendere anche le strade sbagliate per non arretrare: guasconi e fortissimi, sfrontati e provocatori fino a varcare i limiti dell’autolesionismo. Come catalogare l’amicizia di Miha con uno come Arkan, il criminale di guerra serbo cui fece dedicare uno striscione dalla curva Nord? O immaginare il gesto provocatorio di indicare la curva nemica dopo un gol segnato in faccia o mandare a quel paese un ct in mondovisione (e questo lo fece Chinaglia, nel 1974).
Gente, quelli come Sinisa e Giorgione, che si sono sempre assunti le responsabilità delle scelte: avrà giovato alla carriera di Sinisa presentarsi in campo a Roma con il disegno di un bersaglio sulla maglia quando Belgrado era bombardata dalla Nato? O dire tutta la verità quando scoppiò il putiferio in campo in Coppa dei Campioni - Champions League con Vieira (diventò anche suo allenatore all’Internazionale FC)? No, ma Sinisa le cose le diceva e le faceva. Miha ammette e si prende la squalifica: "Gli ho detto negro di m. perché lui continuava a dirmi zingaro di m." No, non gli ha giovato, ma a dire la verità e presentarsi sempre con il mirino in petto ha significato tanto per i compagni, i tifosi e anche gli avversari. Uno capace di reinventarsi tante volte nella vita partendo sempre dal suo piede sinistro, ma a scuola era così secchione da aver imparato, per non subìre punizioni, come fare tutto anche con il destro. Quel piede sinistro, però, gli ha regalato il record di punizioni segnate della serie A. Centrocampista offensivo, ala, difensore centrale: sempre leader. Anche nella malattia: lui, che serio sono nè stato mai, si è fatto serio. Ha lasciato lo spazio al cuore grande da multi-papà (sei figli, un grande amore per Arianna, sua moglie) e condiviso la tenerezza che riservava a pochi: i messaggi sempre giusti, l’esempio trasmesso finché ha potuto ai suoi giocatori. E a tutto il mondo, che ora glielo riconosce con le lacrime agli occhi per una speranza spezzata di rinascita contro l’ennesimo nemico fortissimo. Stavolta più forte di tutto e di un cuore che non voleva smettere di battere.
Palmares
- 1
Scudetto nel 1999/00 - 1
Coppa Italia nel 1999/00 - 1
Coppa Italia nel 2003/04 - 1
Supercoppa Italiana nel 1998 - 1
Supercoppa Italiana nel 2000 - 1
Coppa delle Coppe nel 1998/99 - 1
Supercoppa Europea nel 1999 - 1
Trofeo di Amsterdam 1999
- Galleria di immagini
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Siniša Mihajlović
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Pilastro e simbolo della Jugoslavia
Foto Getty Images -
Ai tempi della Stella Rossa
Foto Getty Images -
Il giorno della presentazione
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Con il Presidente Dino Zoff
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Protagonista in Champions League
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Siniša nel 2000
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Saluta Eriksson dopo un cambio
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Si carica Couto sulle spalle
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Un duro dentro e fuori dal campo
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Ultima stagione a Roma
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Esulta per un gol da capitano
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Facce preoccupate in barriera...
Foto Getty Images -
L'arte di Sinisa: rincorsa...
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... carica il tiro...
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... l'impatto secco sul pallone...
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... che parte carico di effetto...
Foto Getty Images -
... grazie a una mirabile coordinazione
Foto Getty Images -
Tecnico della Sampdoria
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Durante la malattia riceve l'affetto dei laziali

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