Articoli del Corriere della Sera del 15 Maggio 2000

Da LazioWiki.

Simone Inzaghi festeggia Juan Sebastian Veron
L'Olimpico invaso dai tifosi
Tifosi invadono il prato dell'Olimpico
Alcuni calciatori festeggiano sulle tribune
Coreografia biancoceleste su di un condominio
Tifosi in campo
Tifosi in campo
Juan Sebastian Veron e Simone Inzaghi
L'Olimpico stracolmo di tifosi biancocelesti
Festeggiamenti in città
Il raduno al Circo Massimo
Tifosi in piazza

Stagione

Lazio-Reggina 3-0

Perugia-Juventus 1-0


Gli articoli seguenti sono tratti dall'archivio del Corriere della Sera del 15 maggio 2000. Attraverso di essi ripercorriamo la conquista del secondo Scudetto della S.S. Lazio.


Lazio, la felicità arriva dal cielo di Perugia[modifica | modifica sorgente]

di Franco Melli

Lazio, la felicità arriva dal cielo di Perugia. Due rigori e il solito Simeone affondano la Reggina, poi batticuore e incredulità fino al k.o. della Juve.

Una squassante felicità, dopo l'ira e la guerriglia urbana di giovedì scorso. L'orologio ha da qualche istante picchiato sulle 18, quando l'universo laziale fruisce del "verdetto impossibile" accogliendolo con prevalente incredulità. Campioni d'Italia, un privilegio che da questi lidi mancava dal 1974 e pareva ormai irraggiungibile; campioni allo sprint, davanti agli sbigottiti juventini, e adoperando la stessa procedura di sorpasso patita proprio un anno fa, causa il Milan vincente a Perugia. Corsi e ricorsi storici del pallone intossicato dalle polemiche, ma adesso si tratta di sorvegliare l'emozione sopra un pianeta calcio improvvisamente capovolto, dove festeggia addirittura lo scudetto Sven Goran Eriksson, l'ex perdente di successo, l'algido svedese spesso accreditato di saper solo gettare via successi già intascati, fra lo scoramento perpetuo dei suoi tifosi. In una crudele "staffetta", adesso, quel testimone tanto scomodo brucerà a lungo nelle mani di Carletto Ancelotti. Adesso si tratta di riassumere gli snodi pazzeschi d'una domenica che scortica i nervi, che s'impenna nel thrilling sull'asse Roma-Perugia, che chiude la stagione dei veleni come forse vogliono i semidei del pallone. I laziali di curva Nord manifestano lugubri (bare, manifesti luttuosi e uno sciopero di quindici minuti sugli spalti per affermare che il football è morto una settimana fa), tradendo anzitempo il loro vittimismo endemico. Credono d'annunciare le solite vessazioni, la solita fregatura in dirittura d'arrivo, nonostante i meriti acquisiti in oltre otto mesi. Non immaginano il romanzesco colpo di teatro che li annichilirà fra poco, prima d'invadere il prato dell'Olimpico (l'arbitro Borriello dovrà interrompere sul 3-0 Lazio-Reggina, a pochi minuti dall'epilogo, mentre i più scalmanati quasi denudano gli atleti bianconcesti, arraffando magliette e altri souvenir) e prima di sventolare il loro tripudio per le vie del centro storico.

Ma questo è un 14 maggio che piacerebbe a Dario Argento e spiazzerebbe pure i più cervellotici giallisti: la Lazio sgretola presto gli appagati calabresi, la Juve arranca nel nubifragio di Perugia, cominciando la via crucis del secondo tempo, quando all'Olimpico risulta certificato l'aggancio di quota 72 punti, grazie a due rigori nemmeno limpidi (soprattutto quello trasformato da Veron e propiziato da Pancaro, che si butta nell'aggiramento senza coinvolgere il penalizzato Morabito) e all'incornata di completamento firmata Simeone. Sì, volendo essere maliziosi, il canonico 4-4-2 di Formello dà la sensazione d'ottenere il risarcimento dei due penalty negati a Reggio Calabria, quando le polemiche di alcuni tesserati laziali cominciarono ad ammorbare l'aria. Stavolta le compensazioni semplificano il compito dei dipendenti di Cragnotti e rendono meno opprimente l'ultima prestazione in serie A di Roberto Mancini, dopo un ventennio agrodolce. Stavolta riesce tutto facile al creativo Veron, uno degli artefici del sofferto primato catturato in extremis, dentro uno scenario da astronave dell'apoteosi, che sempra annunciare l'imminente delirio dei settantamila presenzialisti. No, non arriverà lo spareggio, che comunque ronza nei pensieri dei vecchi laziali come il premio massimo, come l'unica soluzione per dare credibilità allo sport-business più amato nel nostro Paese. No, il megaschermo piazzato lassù, quasi ci trovassimo ad attendere un giudizio divino, nella valle di Giosafatte, stabilisce che non avremo appendici, tramite il giustiziere Calori. La gente piange e ride, gli stendardi volteggiano, i malfidati inguaribili giurano che piomberanno altri soprassalti, che gli juventini sapranno rimontare. Cragnotti tiene le mascelle serrate, Pulici e Chinaglia tremano sotto a noi, quasi non ritenessero di veder resuscitato un lontanissimo passato.

E il portavoce Guido Paglia urla dentro l'altoparlante, per esortare i disturbatori fanatici a sgomberare, a non rovinare l'impresa sul più bello. Appello rispettato, le formazioni rientrano per concludere, Veron, Simeone, Couto e Favalli hanno rimediato una divisa bianca d'emergenza, senza il numero e il nome sulle spalle. Poi, restiamo tutti inchiodati davanti al megaschermo rivelatorio per una partita doppia che pare non finire mai. La Juve arranca nell'acquitrino, l'arbitro Collina ne giudica la resa con piglio implacabile. Così, la Signora degli scudetti lascia il titolo ai monarchi emergenti. E, dimenticate le presunte congiure, montano le gimkane e i caroselli nel traffico da sagra de noantri.


La gioia del Presidente Cragnotti: "E' la vittoria di Eriksson".

di Stefano Petrucci

In maniche di camicia, come un ultrà. Abbracciato, accarezzato, complimentato come il più illustre degli ultrà. Eccolo, Sergio Cragnotti. L'uomo del destino, dopo ventisei anni di attese. Il presidente nato il 9 gennaio, lo stesso giorno della sua creatura. "Sì, non me l'aspettavo. Almeno non così. Ma forse era scritto. Solo con questo finale-thrilling poteva materializzarsi un sogno così grande, che sento di dover dedicare a mio fratello Giovanni: è stato lui il primo a credere nel nostro progetto, lui ad avviare la nascita di questa squadra fantastica". È l'ora della felicità e quindi dei pensieri positivi: "Che settimana... Ho pensato di perdere lo scudetto per quell'errore di De Santis, sono diventato nonno perché mia figlia Elisabetta mi ha regalato Eleonora, ho vissuto questa domenica incredibile. È fantastico: la nostra vittoria premia il nostro sacrificio e, consentitemelo, ridà credibilità al calcio. Intendiamoci: chi vuole bene a questo sport deve impegnarsi per cambiarlo, per riscriverne le regole, per metterlo al passo coi tempi. Ma quando un torneo finisce così bisogna solo rallegrarsi: ha vinto la Lazio, ha vinto il gioco del calcio". Basta sospetti, allora: "Abbiamo avuto dei dubbi, siamo stati travolti dal sospetto, è vero. Non perché credessimo nella malafede di qualcuno: era il campo, con la sua casualità, a farci temere il peggio. Ma tre giorni fa, forse in una sorta di presagio, avevo invitato tutti alla ragione e alla calma. Probabilmente sentivo che la fortuna si sarebbe finalmente ricordata di noi".

E basta, anche, con le incertezze su Eriksson: "È stata soprattutto la sua vittoria. Ci ha creduto sempre, anche quando eravamo a meno 9 dopo la sconfitta di Verona, a metà marzo, e io per primo mi ero ormai rassegnato. Non è vero che ad un certo punto avessi deciso di allontanarlo. Ero certo invece dell'importanza del suo lavoro, convinto di dover decidere tutto alla fine. I risultati mi hanno dato ragione. Eriksson ha gestito alla perfezione un gruppo formidabile, con una fermezza che cancella qualsiasi diceria sul suo conto: dietro la sua signorilità, sa essere un duro. Uno che non molla mai, proprio come me". I complimenti lo inseguono, quelli di Umberto Agnelli i più graditi: "Mi ha telefonato a casa per dirmi che, per quanto gli dispiaccia, questo è il finale più giusto. È una dimostrazione di stile, di serietà, di eleganza: la Juve è un grandissimo club. Ma oggi, non me ne vogliano a Torino, siamo noi i campioni d'Italia, è la Lazio il modello da seguire". Un modello che Cragnotti si impegna già a migliorare: "Non sarà facile, ma lavoro da tempo in questa direzione. Con la Siemens, intanto, abbiamo acquisito uno sponsor da 50 miliardi per tre anni. Poi ho già acquistato un altro campionissimo, Claudio Lopez, e cercherò altri elementi di quel livello. Non troppi: questa squadra ha solo bisogno di essere ritoccata, come ho già detto qualche tempo fa. Rivaldo? La penso come Berlusconi: per ora costa troppo. Batistuta? Un bel punto interrogativo. Buffon e Cannavaro? Tanzi li vuole per sé. Mi ha detto che tra un anno vuole essere lui a far festa. Ma ora, se permettete, tocca a me. L'aspettavo da una vita, e ora voglio godermela fino in fondo".


Eriksson sfata la leggenda del santo perdente[modifica | modifica sorgente]

di Giuseppe Toti

Eriksson sfata la leggenda del santo perdente. "È il giorno più bello della mia vita: scudetto meritato, ringrazio Agnelli per i complimenti".

Dice che la sua vita è sempre stata racchiusa in poche parole. "Ho avuto solo un motto, sin da bambino: credere sempre, fin quando c'è una speranza. Avere fede nella speranza. E lottare fino in fondo. Fino all'ultimo". Sven Goran Eriksson ce l'ha fatta. E ora è lassù, sul posto più alto, senza più nessuno davanti, dopo un inseguimento durato quasi vent'anni. Dell'antica definizione di "perdente di successo" al tecnico della Lazio, da ieri, rimane addosso solo l'ultima parola. "Ho sempre creduto in questo scudetto, è vero. E ho sempre cercato di raggiungere pure questo traguardo, l'unico che mi mancava da quando alleno in Italia. Sapevo che prima o poi ce l'avrei fatta. Da tre anni alleno una squadra formidabile che merita, oggi, di vivere la gioia di essere la squadra più forte d'Italia". Uno scudetto dopo averne persi due. Dopo essersi portato dietro, peggio di una seconda pelle, l'etichetta di eterno secondo. Si era fermato sul più bello nell'86, sulla panchina della Roma, di fronte al Lecce già retrocesso e dentro a un Olimpico ammutolito e incredulo. E si era ripetuto l'anno scorso, beffato dal Milan alla penultima giornata di campionato, dopo aver sperperato sette punti di vantaggio. Stavolta, proprio quando sembrava impossibile, con due punti da recuperare in 90 minuti, Eriksson ha potuto assistere al miracolo. Ritrovandosi fra le mani il titolo più atteso.

"Quando mi sono svegliato, stamattina (ieri mattina, n.d.r.), ho pensato che la Juve era nettamente favorita per lo scudetto. Ma allo stesso tempo ho continuato a credere nella possibilità di una coda. Il Perugia doveva fare la sua partita per cercare di raggiungere l'Intertoto, e anche per una questione di orgoglio professionale. Ho ricordato ai miei giocatori il dovere che avevano di dare l'anima sino alla fine. Di battere la Reggina e poi di aspettare con fiducia l'esito della partita di Perugia". In giacca e cravatta, nemmeno un filo fuori posto, misurato e calmo com'è nel suo stile, Eriksson è l'allenatore della Lazio che ha vinto più di ogni altro nei cento anni della società biancoceleste. Lo svedese, per il quale ieri ha persino tifato Magnus Norman, il tennista suo connazionale che ha vinto ieri gli Internazionali a pochi passi dall'Olimpico, ha superato anche Tommaso Maestrelli. Uno scudetto e quattro coppe (coppa Coppe, Supercoppa Europea e italiana, coppa Italia) pongono Eriksson su un piedistallo. "È il giorno più bello della mia carriera, penso proprio di poterlo dire. Ho vinto scudetti anche in altri posti, in altri Paesi, ma arrivare primi in Italia è davvero tutta un'altra cosa. Uno scudetto qui equivale a vincere la coppa dei Campioni. Mi auguro, a questo punto, che questo primo titolo non sia anche l'ultimo. Il nostro obiettivo, adesso, è di migliorare ancora, rinforzarci, continuare un ciclo di vittorie cominciato tre stagioni fa. Dipende solo da noi e io sono molto fiducioso". Sergio Cragnotti, presidente biancoceleste, lo ha ringraziato pubblicamente, ieri sera, appena conquistato il secondo scudetto.

Ha ricordato a tutti la determinazione e la forza di questo allenatore preso forse per pazzo, due mesi fa, quando dopo Verona vide allungarsi fino a 9 punti il distacco dalla Juventus capolista. "Non lo dicevo così, tanto per tenere un po' su la squadra e l'ambiente. Sostenevo quelle cose perché le pensavo veramente. Chissà, probabilmente anche memore della beffa subita da noi lo scorso anno. Se il Milan era riuscito a risucchiarci sette punti, perché noi non dovevamo quantomeno sperare di fare altrettanto con la Juve? Non ho smesso di crederci neanche dopo Firenze. Quel pareggio al 93', a quattro giornate dal termine, sembrava che ci avesse davvero condannato al secondo posto. Ma io non ho mai smesso di dire alla squadra di non mollare, di darci dentro, di aspettare qualche passo falso dei bianconeri, che da quasi un anno stavano tirando la carretta senza avere mai grossi cali. Tanta convinzione, evidentemente, aveva ragione di esistere. Ed è bello, bellissimo, poter festeggiare adesso, e in questo modo". Una sofferenza inaudita. Una domenica indimenticabile. Per come è arrivato lo scudetto, per il secondo tempo di Perugia cominciato un'ora e un quarto più tardi. Per i quarantacinque minuti che la Lazio e il suo pubblico hanno vissuto in tribuna e in mezzo al campo, incollati alle radioline. Aspettando, dopo il gol di Calori, solo il fischio finale.

"Sofferto, su questo non ci piove. Ma è altrettanto vero che proprio le cose più sudate sono quelle che danno la gioia più grande. Una domenica così non era, e non poteva essere, nella fantasia di nessuno. Ciò che è successo in quest'ultima giornata credo che sia qualcosa di irripetibile". Alla fine, arrivano anche i complimenti di Umberto Agnelli a lui e alla Lazio. Eriksson di colpo quasi s'illumina. È il segno, forse, del riconoscimento ufficiale della grandezza biancoceleste. "Le parole di casa Agnelli fanno sempre un piacere particolare. Sono sicuro che si tratti di complimenti sinceri. La Lazio, al di là di tutto, meritava di vincere lo scudetto".


Lazio, dalla protesta alla festa più bella[modifica | modifica sorgente]

di Stefano Petrucci e Fabrizio Roncone

L'Olimpico esplode per il gol di Calori, poi il fiume dei tifosi invade la città.

Il buio viene lentamente, è una notte dolcissima, che molti tifosi laziali trascorrono ancora in festa, sostenendo di voler aspettare l'alba e il ritorno del loro cielo, biancoceleste. Cantano e danzano nella grande arena del Circo Massimo, ex tempio romanista, dove non casualmente è stata organizzata la passerella per i nuovi campioni d'Italia. A loro sono dedicati gli inni per la vittoria attesa 26 anni, mentre bandiere e sciarpe sventolano sullo sfondo dei preziosi ruderi.

Ma ciò che maggiormente colpisce è che quasi tutti si ripetano, in cantilena struggente, di aver vinto lo scudetto. C'è euforia e incredulità, la felicità si fonde a cospicue dosi di stordimento. Se, infatti, un anno fa, tutto era venuto giù in un fumo di illusioni e disperazione, stavolta l'epilogo del torneo è stato ben diverso. Tutti ne portano ancora la scansione ben impressa nel cuore e nella mente. Tutti sanno di aver vissuto, dentro il catino gonfio dello stadio Olimpico, la più lunga ed entusiasmante vittoria che si ricordi nel campionato di calcio italiano. È una storia di sport che i padri racconteranno ai figli, e che i figli tramanderanno come si deve. C'è già una sorta di tradizione orale, arricchita da dettagli personali: certi tifosi, quando s'è capito che bisognava soffrire per tutto il secondo tempo di Perugia-Juventus, giurano di essersi comportati esattamente come l'anno passato, quando si attese il finale di Perugia-Milan. La superstizione più cupa, sperando di disorientare il destino. Con immagini di ragazzi abbracciati sul prato, di fidanzate con gli occhi lucidi. Di bambini stupiti. Di vecchi signori in ginocchio. Tutti a guardare la tribuna d'onore del presidente Sergio Cragnotti.

Tre minuti così. Fino alle 17.16: quando giunge la notizia che ha segnato Calori, che il Perugia è avanti, la Juve è dietro e che la Lazio sta vincendo il suo secondo scudetto. Se le sensazioni contano, è a questo punto che comincia, improvvisa, la festa. Alla faccia del destino. Via le scaramanzie, la gente comincia a cantare, per darsi coraggio e perché poi bisogna crederci, perché è la vita, perché viene anche espulso lo juventino Zambrotta e allora i minuti cominciano a correre molto più veloci. Radiocronaca via altoparlanti. Frasi storpiate. Pippo Inzaghi ha tirato fuori, non dentro. Nessuno, nello stadio Olimpico, è in grado di stabilire a che minuto sia giunta la notizia. Restano immagini in dissolvenza, nel gran boato della gioia. Quelli che si fanno il segno della croce, quelli che singhiozzano. Quelli stretti in mucchio e quelli fermi, immobili, che pensano a certi pezzi di vita da laziale, alle sconfitte, agli spareggi per non andare in serie C, alle domeniche sotto la pioggia. Quelli che pensano alle persone lontane o andate via per sempre, che non si possono abbracciare forte. È la festa di chi ha vinto poco, pochissimo. Infatti sui tabelloni elettronici scorrono le immagini dell'ultima vittoria. Era il 12 maggio del 1974, e quello lì è Pino Wilson, il capitano, e poi ecco Chinaglia, Martini, e gli altri. Già, gli altri: Frustalupi, Re Cecconi, e l'allenatore Maestrelli, il presidente Lenzini, pure loro a fare festa chissà dove. Pure loro nei ricordi che si accavallano, nelle frasi spente dai sospiri.

Ma uno che ha la voce ferma è il capitano Alessandro Nesta. Gli danno il microfono e lui, subito: "Chi non salta / romanista è / è". Saltano tutti. La squadra è in tribuna d'onore. Salas e Mancini, Simeone e Veron. Mezzi nudi, sudati, sconvolti dall'eccitazione. Nedved che bacia Cragnotti, Inzaghino che si stringe a Pancaro. Tutti rilasciano dichiarazioni nel gran groviglio di cavi e microfoni. Sono minuti convulsi, divertenti e coinvolgenti, e chissà di chi è l'idea di spedire sui tabelloni, all'improvviso, la faccia del direttore generale della Juventus, Luciano Moggi. Potete immaginare da che genere di cori e sberleffi sia stata accolta. Poi i campioni d'Italia si ritirano, mentre a centinaia restano in attesa di vederli ricomparire, per applaudirli ancora. La squadra invece torna nel ritiro di Formello e così i tifosi imboccano le uscite, riversandosi nelle strade della città. Vanno a piazza del Popolo, scendono la scalinata di Trinità de' Monti, in sella ai motorini risalgono le stradine dei Parioli, mentre altre compagnie scendono dai Castelli Romani, da Ariccia, da Frascati, da Nemi, e da tutta la provincia che, alla Lazio, fornisce il grosso della tifoseria. La popolazione biancoceleste trova mezzi blindati parcheggiati nei principali incroci e plotoni di agenti e carabinieri con la visiera del casco abbassata e il manganello già tenuto alto. Vengono segnalati piccoli tafferugli, un corteo di ultrà, di quegli ultrà assai temuti alla vigilia, sfila per via del Corso.

Ma tutti, lentamente, tendono a confluire verso la zona del Circo Massimo. L'allegra adunata viene convocata dalle radio private, quando ormai le 23 sono passate da pochi minuti. Il Circo Massimo è il luogo dove i tifosi della Roma celebrarono la conquista del loro secondo scudetto, nel 1983, e dove, l'anno successivo, avrebbero voluto celebrare la conquista della Coppa dei Campioni. Lo consideravano un luogo privato. Ci vedono sventolare drappi biancocelesti. Molti, per questo, non riescono ad addormentarsi.


In un altro articolo di Franco Cordelli:

Il fischio finale ci ha lasciati increduli e felici.

Mi avvio verso lo stadio Olimpico con animo sereno. Sono così sereno che mi chiedo se la scaramanzia non giochi a rimpiattino con i miei desideri. La risposta è no. Per quanto umanamente è possibile, sono certo di non barare: di non barare, dico, con me stesso. La Juventus vincerà lo scudetto. Vado a vedere la partita per raccontare che nel blasone della Lazio c'è la sconfitta, non già la vittoria. Mi ricordo la beffa del 1973. Ero a Napoli, fino alla fine ancora si sperava nella vittoria. Poi il secondo posto di Zeman, di qualche anno fa. Ma soprattutto il secondo posto dello scorso anno. La Lazio aveva 7 punti di vantaggio e aveva bruciato il suo patrimonio con una voluttà della sconfitta tutta speciale. Come credere nella vittoria? Non credevo nella vittoria; e neppure nel famoso spareggio. Che una squadra solida come la Juventus cedesse sul traguardo non era mai successo. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo di Lazio-Reggina faccio notare ad un amico che c'è nell'aria una strana atmosfera. Nessun clamore, nessun coro; ma nessun silenzio è possibile. C'è, si direbbe, un brusio. Che cosa significa, questo brusio? La risposta arriva pochi minuti dopo. I giocatori sono rientrati. La partita non riprende. A Perugia il campo è allagato. Come: un campo allagato il 14 maggio?

E' proprio vero: il diavolo fa le pentole, non riesce (o non vuole) fare i coperchi. Ma ora la domanda è: chi è il diavolo? Oppure: qual è la pentola che non deve bollire? E insomma: chi favorirà questa pioggia che nessun intenditore di calcio, nessun tifoso, nessun dirigente, nessun arbitro poteva mettere nel conto? Il terzo gol della Lazio è una formalità. Il brusio non cessa un istante, è incontrollabile, sfugge a qualunque possibilità di interpretazione. Solo la follia umana (così la giudichiamo noi, tifosi normali, se ve ne sono) consente che altri tifosi, i più scalmanati, i più giovani, quelli che avevano fatto il funerale al calcio e avevano esposto lo striscione "Il calcio italiano è morto" in tutte le lingue, solo la follia umana consente che il campo sia invaso a tre minuti dalla fine. C'è il rischio che la partita venga annullata, come c'era il rischio che venisse rinviata l'altra, a Perugia. Ma l'incredibile, essendosene accumulato un bel po', deve ancora arrivare. I giocatori rientrano negli spogliatoi, a Perugia la partita è ripresa da quattro minuti, un boato scuote l'Olimpico dalle fondamenta: il Perugia ha segnato. Di lì in poi nessuno oserà uscire dallo stadio. La Lazio promette una proiezione sui maxischermi. L'attesa è spasmodica. Il collegamento non avviene. Quaranta minuti non passano mai.

Il brusio non c'è più. C'è un rumore di fondo. C'è, nel fondo, nel fondo di tutti, nel nostro fondo animale, un silenzio immane, indicibile. Mi viene in mente lo scorso anno, la partita con il Parma, il dolore per la sconfitta, ne ho quasi nostalgia. Non posso credere a nulla di diverso. All'improvviso la radio: la voce del radiocronista ci fa vibrare come non osavamo. Mancano pochi minuti, tutto se ne va, perfino il tempo, perfino la paura. Al fischio della fine di Perugia-Juventus l'ebbrezza di noi laziali è così potente da lasciarci soli, immersi ciascuno nella sua incredulità, nel suo sfinimento.


Un altro articolo:

Chinaglia: "Merito di Cragnotti, ma ho pensato a Maestrelli. Lo confesso: quando Collina ha fischiato la fine di Perugia-Juve, ho pianto. E ho invocato il nome di Tommaso Maestrelli. Sono sicuro che lassù ha fatto festa pure lui". Non ha certo paura di lasciarsi cullare dalla retorica Giorgio Chinaglia, da ieri non più unico simbolo di una Lazio che trionfa. La Lazio di oggi è molto meno sua, non soltanto perché non ne veste più la maglia numero 9. Ma non per questo, ammette il vecchio bomber del '74, la felicità non gli crepita dentro: "Sono sensazioni diverse, è naturale. Allora ero protagonista in prima linea, oggi sono solo tifoso. Ma ugualmente entusiasta. La Lazio ce l'ho nel cuore, a prescindere dai ruoli. È importante che abbia vinto, per la sua gente e anche per il calcio. Un finale così dovrebbe rincuorare quelli che in questi giorni hanno temuto che il giocattolo stesse per rompersi". Tende la mano a Sergio Cragnotti, cui resta legato da un rapporto controverso: "È lui l'emblema del nuovo calcio. Un manager vincente e, se serve, spietato. Distante anni luce da Umberto Lenzini, il presidente-papà. E anche, scusate il paragone, dal sottoscritto. Questo non è più lo sport del cuore, ma quello del business e dell'organizzazione. Difficilmente la mia Lazio avrebbe vinto oggi. Se invece è finita così, il merito va soprattutto a chi l'ha messa al passo coi tempi". Giorgione non era allo stadio: "Non ce l'ho fatta: ho seguito le partite alla radio, da casa mia". Chi c'era, giura Enrico Montesano, non dimenticherà mai questa domenica: "Neanche il più grande giallista di sempre sarebbe riuscito a scrivere un finale così. Mi sentivo morire, incollato al transistor di un amico, in tribuna all'Olimpico. Lo scudetto era lì, era nostro, ma bastava niente per farlo svanire... È andata come doveva andare: la Lazio è stata più forte di tutto e di tutti".